Ormai sono diventato bravo: quando pubblico qualcosa su Facebook sono in
grado di anticipare le reazioni; uno statistico direbbe che il mio livello di
confidenza supera l'80%, che è come a dire che ci piglio.
La settimana scorsa, ad esempio, ho postato una scemezuola breve e
satirica, quasi una barzelletta. Mi attendevo tra i quindici e i venti like (di
più no, perché mancava l'elemento sentimentale) e venti sono arrivati. Due
giorni fa ho scritto invece un testo più lungo e analitico, diciamo pure filosofico,
denso, e proprio per questo sapevo che a malapena avrei raggiunto i cinque
like. Ne sono arrivati tre.
Da principio mi sentivo orgoglioso per queste mie facoltà quasi profetiche,
ma poi è subentrato un dubbio sotto forma di paragone. Ho pensato a un bambino
di sei anni: ogni volta che dice delle cose intelligenti viene messo in
castigo, a letto senza cena e tivù. E guai se protesti! Mentre se il bambino
scoreggia, rutta, versa le fialette puzzolenti sotto il banco dei compagni,
viene premiato con un bel 10 sul diario dei Pokémon. Per non dire di quando
torna a casa sporco di merda, ed è tutta una festa di complimenti e regalini.
Ma crescendo, continuavo a pensare, che uomo diventerà? Scemo, quasi
certamente. E così io, quando nuoto in una boccia di vetro che talvolta
confondo con l'oceano, che pesce sto diventando? Un delfino... Non credo. Più
facilmente un'acciuga, di quelle piccole piccole che si muovono solo in banchi.
Non mi permetto di rispondere alla stessa domanda per voi, ma questo tipo di interazioni sui social – da acciughe, da calamari giganti e burloni o da esibizionisti sentimentali, che invece del pisello fanno sgusciare dall'impermeabile un gattino arruffato – a me non fanno bene. Non dico che ogni rapporto dovrebbe rendermi diverso e migliore: ma peggiore no, e che cavolo! Un po' di bellezza ci sarà pure, ancora, da qualche parte.
Da quando ho iniziato a perdere i capelli e non sono più il quindicenne
orgoglioso di essere considerato il più bello della classe, ho cominciato a
cercarla fuori di me. Ma di nuovo: è bellezza, intelligenza, vita, entrare in
una relazione verbale con i post che leggo su Facebook, dove le scrittrici
depongono un cuoricino se a scrivergli sono altre scrittrici, mentre gli altri
vengono puntualmente ignorati in assenza di pedigree?
Amichettismo lo chiama il mio amico Fulvio Abbate. Salvo poi
vedere anche lui affannarsi e sbracciare controcorrente, forse i salmoni devono
sollevare un sacco di spruzzi prima di trovare un'insenatura dove l'acqua è calma e ospitali le rive, e lì deporre le uova. Quanti pesci per un così piccolo mare.
Torniamo allora alla mia pozzanghera defilata, e al fantasma della
bellezza. Non ne trovo, di bellezza, nemmeno nel dialogare con chi commenta ciò
che scrivo: il mezzo è quello che è, non consente un approfondimento vero, scarti
laterali, impennate del ragionamento o della fantasia. Solo un'orizzontalità
fatua in cui finisco col dissipare il mio tempo, quando l'illusione di un
talento da coltivare è già svanita da un pezzo.
Ho così deciso di non commentare più ciò che leggo sulle bacheche degli
altri, e, per disposizione simmetrica, mi comporterò allo stesso modo anche con
i commenti che trovo in calce ai miei post. Non risponderò pubblicamente,
almeno.
Nella lingue semitiche, nel sanscrito e nel greco antico, oltre al plurale e
al singolare esiste una coniugazione duale. Possiamo vederla alla maniera di
uno spazio intermedio tra il singolo e i molti, come quello che nella religione
cattolica il fedele si ritaglia quando abbandona il piedicroce per entrare
nella penombra del confessionale.
Non credo che l'ammissione dei propri peccati sia tanto importante, quanto
il fatto che si è in due; per chi ci crede, l'altro è il sostituto nientemeno
che di Dio. Ma potrebbe pure essere il portaborse di Manitù, o semplicemente sé
stesso: un prete, un uomo di fronte a un altro uomo, per fare brillare la
scintilla che accende il fuoco del racconto.
Se volete comunicare con me scrivetemi dunque in privato, magari potete
usare Messanger. So a malapena qualche parola di greco antico ma possiamo inventarci
il duale anche parlando in italiano. Sì, parlando, perché risponderò lasciando
il mio numero di telefono.
Se non siete d'accordo con qualcosa che ho scritto ci confronteremo,
potremmo anche arrivare a litigare, ma senza insultarci come avviene quando non
ci si mette la faccia, in una replica testuale degli automobilisti che fanno le
corna quando i finestrini sono sollevati, le portiere ben chiuse. Oppure
potremmo incontrarci, perché no. A me farebbe piacere. Mi sento solo e
vagamente depresso; o perlomeno è quanto sta scritto sulle ricette per gli psicofarmaci.
Potremmo potremmo... massì, potremmo perfino innamorarci. Quando si gioca
al facciamo finta che spariamole grosse! In questo possiedo ancora
dei limiti culturali: sono un banalissimo eterosessuale di mezza età, non sono
queer, fluido. Ma se nessuno è perfetto cambiare è sempre possibile.
Cambiare in meglio, l'ho già scritto, è difficoltoso, ammetto i miei
limiti. Ma i social mi rendono una persona peggiore, e fatemelo dire senza
alcuna intenzione offensiva: anche voi non siete messi tanto bene. Specie
quando come prima cosa che fate al risveglio è ritrovare a tentoni lo smartphone, con cui condividere la fondamentale esperienza appena fatta. Dormire. Quindi specificare se il cuscino era morbido o duro, cosa avete mangiato la sera,
pisciato, cacato. Oppure sognato, ammesso che sogniate ancora.
Io ho smesso di farlo. Non sogno più. Ma sono tutte cose che racconterò ai
margini dello sguardo, qui ci sono troppi occhi, ne bastano due. Più i miei un
po' acciaccati che fanno quattro. Almeno se qualcuno vorrà ascoltarmi e
raccontarmi dei suoi sogni o non sogni, baci o non baci, non o non. Perché un
cazzo di sì, pronunciato a piena bocca e con convinzione, come quello di una
sposa sull'altare, su Facebook non l'ho ancora sentito.
(Testo pubblicato in originale su Facebook il 6 novembre 2022)
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