lunedì 8 aprile 2019

La prima fetta di torta, o su come i sogni si trasformano in incubi

Il libro con cui ho iniziato a leggere è stato l’autobiografia di Sandro Mazzola, seguito a ruota da Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Ma Hemingway non sarebbe probabilmente arrivato senza Mazzola, è lo zolfanello che ha acceso il fuoco, anche se il valore di quelle pagine mi sembra ora cenere. Ed è forse giusto così. 
Si intitolava La prima fetta di torta e aveva una copertina verde con un pallone di cuoio grezzo in primo piano; sullo sfondo i pali della porta, al cui interno, con le giubbe delle squadre di diversi club, alcune figure umane appena sbozzate, tra cui si riconosceva lo stesso Mazzola.
Era un uomo affabile, di solito le persone affabili sono un po' rotondette, mentre lui era secco secco ma dalle gambe lunghe e potenti, con cui riusciva a liberarsi dalle marcature a uomo dell'epoca, terzini alla Burgnich (nomen omen) che ti seguono anche negli spogliatoi.
 
Non certo a livello del suo rivale di sempre, Gianni Rivera, detto l'Abatino, e però Mazzola sapeva essere anche tecnico, come l'educazione tecnica che studiavo in quei giorni a scuola, un accostamento che non mi tornava mica tanto. Ma era quanto sentivo ripetere da mio padre e mio zio, e io prendevo per buone le loro parole. Anche perché ciò che davvero mi interessava non erano le spigolature, nemmeno in fondo i risultati, e piuttosto sentirmi parte di una formidabile macchina emotiva, ed era questo il calcio quando Vallanzasca ancora svaligiava le banche e la Fiat presentava (giustamente orgogliosa) la 128 Rally.
In fondo, in quei giorni, quasi tutto era calcio, o come pronunciavano i più forbiti football. Giocare a football nei prati dopo aver studiato le parentesi graffe, con i maglioncini avvoltolati al posto dei pali della porta, di cui il portiere riduceva la distanza con distratta nonchalance. Ma se un contadino infuriato o la neve impedivano quelle partitelle, era sufficiente la sciarpa nero e blu, blu e non azzurra, che cavolo quelli sono Napoli e Lazio, della tua squadra del cuore. In tasca le figurine, sempre di football.
Anastasi era introvabile, però se spuntava dal pacchetto giusto, scoprire che era il ritratto sputato di Lando Fiorini, o meglio la sua caricatura eseguita a carboncino sotto ai portici di Piazza Duomo. E poi parlare e dissentire e accapigliarsi sugli errori arbitrali, ma più tardi, al Bar Piero, non presentandosi (sono malato) se l’Inter perdeva il derby, per non ricevere gli sfottò.
Ripensandoci, mi chiedo come mai, adesso, è una delle cose che più detesto. Ti piace il calcio? No, mi fa schifo! Una sensazione quasi fisica, che avverto ogni volta che lo zapping televisivo mi precipita in una trasmissione sportiva, Abatantuono si liscia il pelo e Mughini dice abooorro…
La risposta provvisoria che mi do è che, tra la metà degli anni ottanta e i primi novanta, deve essere accaduto qualcosa. Volendo essere ancora più precisi, identificherei quel momento con l’apparizione pubblica di Bobo Vieri, la stagione calcistica è quella del 1991-92; vestiva allora la stessa maglia amaranto del padre di Mazzola, doveva essere ben piegata in valigia quando l'aereo incocciò la collina di Superga.
Con Bobo Vieri diventano tollerabili, anzi legittimi, anzi virtuosi i comportamenti più plateali e smargiassi. Seguirono i tatuaggi sfoggiati dai calciatori tutti, capelli tagliati alla moicana, fisici scolpiti in palestra, per arrivare a quell’epitome del calcio moderno che è Mario Balotelli. A quel punto, della torta di Mazzola erano rimaste solo le briciole.
Al suo posto una nuova pasticceria, in cui il calcio, che aveva riflesso gli umori popolari più diffusi e anche bassi, si trasforma in una sorta di specchio specchio delle mie brame, con cui cercare conferma su chi sia il più bello del reame.
I calciatori smettono così di essere dei nostri doppi, certo con più talento, estro, ma nella sostanza omologhi alla carne di cui siamo fatti, per impersonare ciò che vorremmo essere: ricchi, fichi, naturalmente ignoranti ("che la cultura, oggigiorno, non ci paghi nemmeno il biglietto di ingresso al Billionaire, con la cultura”), ma soprattutto grandi scopatori di veline.
Tutto il contrario di quel che era Sandro Mazzola, ma anche il vecchio Santiago, nel romanzo di Hemingway insegue qualcosa fino a dove finisce il mare. Un enorme marlin, sta scritto. O forse un sogno, un’ideale, un cazzo di cosa qualsiasi, purché non somigli a Bobo Vieri.

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