La progressiva estraneità
che ho iniziato ad avvertire, già da anni, verso questo Paese, è
lievitata negli ultimi tempi fino a toccare la lama sottile dell'odio e del
disprezzo. E non solo verso gli italiani, dunque voi che state leggendo, passando per lo specchio
in cui vedo diradare (orrendamente) i miei capelli sempre più, ma ha finito col
coinvolgere anche ciò che non avrei mai pensato mi offendesse, che è quella
lingua non a caso materna, lasciandomi orfano di parole. L'unico figlio che mi
capita, in certe notti torride, di rimpiangere, quel ragazzetto lungo e magro
che corre nella polvere biscottata di una periferia indistinta, ma certamente
africana, ha dunque la pelle nera come i suoi allegri compagni di gioco, il
pallone rotola selvatico tra ginocchia tozze e sbucciate uguali alle mie, gli
occhi verdi e acquosi della nonna Maria. Così mi accorgo di provare disgusto nel
chiamare ancora una volta pane il pane, non sapendo però come altro chiamarlo,
come richiamarmi a casa quando riso e latte eran pronti e fumanti sulla tavola,
mille anni fa…
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