lunedì 28 settembre 2015

Io per come la vedo io, o sulla lateralità dell’amore

Io per come la vedo io l’amore è una cosa abbastanza semplice. E’ come quando stavi seduto accanto alla mamma nella sala d’attesa del dentista, mentre, da dietro una porta enorme e bianca e spaventosa, proveniva il sibilo metallico di un trapano in azione. Così la guardi dal basso verso l'alto, sei ancora un cucciolo, ma lei non dice nulla: impassibile come solo le mamme riescono a stare, sfogliando le pagine di una rivista femminile stropicciata. E allora nemmeno tu dici niente, zitto, mosca, un soldatino che fa il suo dovere. Potreste rimanere lì per giorni, forse anni, uno accanto all’altra, uno lo specchio dell'altra. Intanto di nuovo e sempre trapano che fischia. Riviste femminili. Odore di cicca alla menta e acqua ossigenata, come quella che sfrigola sulle ginocchia appena sbucciate - il peggio che ti può capitare insieme a lei. Ecco, uguale uguale solo non c’è più la mamma e neppure il trapano, se non dentro la tua testa. Quello però non è l’amore, è solo l'inizio. Comincia infatti col trapano, comincia che la vedi, la pensi, ti invade e martella i pensieri, e poi finisce con l’amore. Ma mica sempre. Perché succede pure che bon, ciao, arrivederci e grazie. Se non che ci sono altre volte, vi conoscete da pochi giorni, pochissimo tempo, perfino minuti, ma già ti viene voglia di rivederla. E dopo che l’hai rivista ti viene voglia di baciarla. E dopo che l’hai baciata ti viene voglia di scoparla. E dopo che l’hai scopata… No, sbagliato: nemmeno questo è l’amore, ma ancora il trapano. La differenza tra amore e trapano io, per come la vedo sempre io, non è tanto difficile nemmeno quella. Nel trapano tutto avviene in una prospettiva frontale: lei sta davanti a te, piacere, io mi chiamo Tal dei Tali, bel nome, io Pinco Pallina, te la sta presentando un amico. Poi, continuando a fronteggiarvi ma sempre più distanti dall'amico, finito in secondo piano come un chierichetto all'ombra della tiara del vescovo, iniziate a parlate e sembrate conoscervi da sempre, vi burlate dei medesimi vizi del mondo, poi aggrotti la fronte al suo racconto di una cosa qualunque, e che però accidenti, a quella cosa qualunque lì, tu non ci avevi mai pensato! Ma come è intelligente allora pensi, ma come è sensibile pensi subito dopo, ma come è simpatica pensi mentre vi scambiate il numero di cellulare: ma soprattutto, cazzo, come è bella, concludi mentre stai per baciarla sulla bocca! E però aspetti, aspetti... – non puoi farlo dopo una manciata di minuti appena, sotto lo sguardo dell'amico chierichetto – e al prossimo appuntamento finisce che è lei a baciare te. E in che posizione ci si bacia? Uno di fronte all’altra, naturalmente. Rientrato a casa rivedi tutto come in un film al replay, un film proiettato sulla schermo della memoria, in cui ti sembra ancora più bella di quando l'hai filmata la prima volta con lo sguardo, bellissima, tum tum tum, trapano che batte, ma era sempre una ripresa frontale, il cartone animato di un mosaico bizantino. Quanto allo scopare, va be’, lasciamo andare… che non son cose tanto belle da dire. E comunque la musica non cambia: anche nel sesso si è sempre su una linea verticale, un’autostrada che va da io a tu, e poi marcia indietro da te a me. E’ solo quando avviene qualcosa come un impercettibile scarto laterale – mamma e bambino dal dentista o, più tardi, due vecchi seduti sulla panchina dei giardinetti – è lì che lo capisci. O forse non lo capisci, non è tano importante. In ogni caso: se hai paura del dentista, del trapano, la vita, il dolore, la morte, la sofferenza fisica e spirituale, peggio per te. Se invece continui ad aver paura di tutto ciò, mica sei Capitan America, ma quella paura senti come raddoppiata: una porzione di paura per te e una porzione di paura per la persona che ti sta seduta accanto, non di fronte, d'ora in poi sempre e per sempre di lato, quello che si dice stare dalla stessa parte, allora sei sulla buona strada. Perché l’amore è avere paura due volte. Ma con la minima consolazione che qualcuno se la sta facendo addosso per te, anche se fa finta di niente e sfoglia una rivista femminile stropicciata.

domenica 27 settembre 2015

L’umanità? E’ appesa a un filo, anzi, a un capello



Mattina. Domenica. Postumi di un fine settimana in provincia, alcolico quanto basta per l'ennesimo fioretto al dio degli epatociti, che ancora non si è stancato dei miei buoni e negligenti propositi. Raggiungo il bagno per pisciare, ma prima di calarmi gli slip Tezenis dal fascione alto e fosforescente, come sempre controllo la stempiatura nello specchio, l’incalzare del deserto sulla prateria assediata dal nulla. E però un momento, quale dei due devo guardare?! Da una parte ci sta infatti il “vero" Guido, l’io penso quindi sono cartesiano, ma penso a cosa… mah, mentre dall’altra parte, nello specchio trapuntato da goccioline di dentifricio, mi viene restituita un’immagine che corrisponde alla negazione di tutto ciò. Un alieno, un calvo, un estraneo… Va be’, mi arrendo, Ecce Homo! In fondo già avrei dovuto saperlo: la realtà è una torta divisa tra il sogno del pasticcere e la foga del banchetto. Rimane da capire quale sia la sostanza e quale, invece, la rappresentazione. O non sarà che queste due immagini di me, una astratta e mentale e l’altra brutalmente tangibile, intente a traguardarsi sospettose dai due lati dello stretto corridoio del bagnetto, siano piuttosto avvinte, inseparabili, realmente speculari? Allo stesso modo, come io sono conteso tra l’ideale e il suo doppio fisico e corrotto, senza mai approdare a una sintesi dialettica e anzi tendendo sempre più l’elastico, come chi faccia bungee jumping sopra a un abisso senza fondo, anche l’umanità è forse nelle mie stesse condizioni: una moltitudine di disgraziati in mutande Tezenis, una folla di derelitti che sta per pisciarsi addosso, senza più sapere dove e quale sia la tazza… Una sorta di strabismo che ci fa simili a quel personaggio nei film di Ollio e Stanlio, con i baffoni e gli occhi divergenti a confondere perennemente tutte le cose, mentre tiene la buccia e getta nel cestino la banana. Ma siamo sicuri che la parte più preziosa della banana sia la polpa? Per inciampare, ad esempio, funziona molto meglio la buccia... E chissà allora che non sia proprio questa la via maestra, e non un'inutile digressione nel percorso: l'inciampo, la perdita di equilibrio, la messa in questione di ogni certezza e definizione, comprese quelle sulla nostra identità. Perdersi allora per ritrovarsi, ritrovarsi per perdersi e riperdersi, ancora, all'infinito. E solo nel totale oblio di ogni cornice, guadagnare nuovamente la bella e vasta illusione che ci dava un tempo respiro, la fantasmagoria che faceva marciare eserciti e sospirare le fanciulle in fiore. Massì, l’umanità starà pure perdendo i capelli, ma per ritrovare la parrucca.



giovedì 24 settembre 2015

Miss Soprammobile, o sulla bellezza, la forma e il terribile

Alice Sabatini è stata incoronata la più bella d’Italia il 20 settembre 2015. Non la più intelligente, la più capace, la più virtuosa o la più colta. La più bella, semplicemente. E’ questo che notoriamente sancisce la fascia tricolore di Miss Italia. 

Eppure, dopo la sua recente elezione, si è scatenata una lunga polemica, che come la biglia di un flipper è rimbalzata tra giornali, televisioni e ora anche nei social network. A originarla un’affermazione della stessa Sabatini. “In che epoca storica avresti voluto vivere” le domanda nel corso della serata finale Claudio Amendola, membro della giuria del concorso. “Nel Quarantadue” risponde lei. “Nel Millenovecentoquarantadue” puntualizza dopo una breve trepidante pausa, “per vedere realmente la seconda guerra mondiale, visto che i libri parlano, parlano, ci sono pagine e pagine. La vorrei vivere, tanto so' donna e il militare non l’avrei fatto e me ne sarei stata a casa”.

Tanto so' donna… Credo sia questo ad aver dato fastidio: la sciatteria dialettale, vagamente codarda, con cui è stata rievocata la principale tragedia del Novecento. E a confermare l’impressione di modestia intellettuale della reginetta del concorso, un’altra sua risposta a Valerio Staffelli, inviato di Stiscia la notizia. “Personaggio storico italiano preferito” chiede lui. Mazzini, Garibaldi, Gramsci, Manzoni, Pasolini, Majorana...? No, nessuno tra questi. Risponde invece lei: “Micheal Jordan.”

Va bene, Alice Sabatini, florida e piacente ragazzona di Montalto di Castro, non è esattamente un’aquila, o forse è la scuola italiana a fare acqua da tutte le parti. E poi le sue risposte sono scaturite in condizioni di prevedibile imbarazzo e difficoltà, almeno per una persona nata il 12 ottobre del 1996, dunque appena diciottenne. Che è quanto ha sottolineato, difendendola, Vladimir Luxuria, altro giurato della manifestazione. Ma nonostante ciò le sue parole, che per eufemistica indulgenza diremo semplicemente leggere leggere, non certamente offensive, proiettano una luce diversa su di lei, oltre che sul concorso appena vinto. In altre parole, io credo che la questione vera riguardi ancora e sempre la bellezza.

Cos’è dunque la bellezza?

La bellezza, si dice, è forma. Meglio ancora è corrispondenza sensibile – e tra i sensi a prevalere è certamente la vista – a un modello dato e socialmente riconosciuto, un modello appunto formale. Sì, è anche questo, tant’è che non sì dà il caso di una vincitrice di un concorso di bellezza con un nasone smisurato, o con la cellulite, il sedere floscio e debordante. Potremmo perfino azzardare che la bellezza è legata a elementi di proporzionalità quasi geometrica. Eppure tutto ciò non è sufficiente a emozionarci, a conquistarci per farci infine esclamare: “Bello!”.

Bisogna quindi aggiungere che la bellezza non è confinata alla semplice percezione sensibile, ma è anche e principalmente esperienza: la particolare esperienza che dai sensi viene trasferita al cervello, caricandosi, nel percorso, di elementi ulteriori. E’ questa la ragione per cui, stante l’universalità di premesse oggettive, le stesse risuonano differentemente tra le persone, facendo concludere a Shakespeare: “la bellezza sta negli occhi di guarda”; o, più prosaicamente, è motivo del celebre motto: “non è bello ciò che bello ma è bello ciò che piace”.

Ma allora quel che davvero conquista nella bellezza, più che la bellezza stessa, ovvero la sua forma tangibile e certa, è la catena evocativa innescata da uno stimolo esterno. La bellezza non sta infatti nello stimolo ma nemmeno nella risposta, quanto nella relazione significativa (tra soggetto e oggetto) che rende possibile tale esperienza. Possiamo guardare a questo processo come a una risonanza, un gioco di continua rifrazione tra vissuto e accadere della vita, che consegna ai sensi, oltre alla sensazione di meraviglia per la novità appena sperimentata, qualcosa che rassomiglia a una méta possibile e ventura. O se preferite un approdo, ma non propriamente inaudito, già che come da sempre vagheggiato. Provando a riassumere in una battuta: la bellezza autentica è sinonimo di oscillazione, alla maniera di un'altalena che pencoli tra memoria e destino.

La bellezza non oscillante ha viceversa qualcosa di mortifero, di algido e stucchevolmente inamidato. Come in quelle case colme di soprammobili lustri e datati: saranno anche "belli", ma non ci agganciano e stabiliscono con noi una relazione. Di più, ciò che non parla alla vita e della vita così come noi la percepiamo – con un ossimoro potremmo dire con semplice complessità –  coinvolgendo la nostra storia personale e le memorie di cui siamo portatori, ci allontana e respinge.

Anche per Platone la bellezza coincide con la memoria. Degli assoluti soprasensibili, i cosiddetti archetipi, secondo lui. In mancanza di conferme in tal senso, potremo limitare la reminiscenza all'abisso inconscio perlustrato da quel formidabile palombaro di nome Freud, che ci fa palpitare in accordo al mondo sommerso delle nostre esperienze più vere e profonde. La bellezza lascia riaffiorare e precisa tutto ciò, conferendo una direzione nuova e vitale anche al ricordo più remoto. Ma le memorie possono essere anche ultra-personali, ossia residui arcaici della specie o della storia familiare a cui apparteniamo, senza però averne cognizione.

Se le cose stanno a questo modo, le polemiche sulla gaffe della giovane e graziosa Alice Sabatini (inutile ricordarle che nella seconda guerra mondiale ci furono migliaia di donne ferite nei bombardamenti, torturate, stuprate, gasate nei campi di sterminio o che aderirono alla resistenza, rischiando e spesso perdendo la propria vita) non riguardano tanto la scarsa cultura delle concorrenti, come è stato da più voci ripetuto, ma proprio e ancora il livello estetico apparentemente misurato dal concorso. 

In realtà, quel che qui è in gioco è l'essere nella migliore delle ipotesi piacevoli a uno sguardo di superficie, ossia bone, gnocche, fiche o come diavolo volete chiamarle. Tutte qualità per cui la dimensione interiore, in cui si immerge la voce della bellezza per ritornarci nella forma soffusa e vibrante di un'eco, è del tutto superflua, se non addirittura d'intralcio. Al punto da risultare ipocrite e pretestuose anche le interrogazioni a cui sono sottoposte le ragazze: una lunga impacciata teoria di sventurate in costume da bagno intero, esposte ai motti di una commissione vagamente complice e burlona. 

Quanto alla bellezza, è inevitabilmente altrove.

In assenza di bellezza, quel che viene misurato dai numerosi concorsi di questo genere è la dimensione del carino, del grazioso, dell' "agréable", che sta alla bellezza autentica come una lucertola a un coccodrillo.

Ma se non c'è bellezza e solo carineria, a Miss Italia, non c'è neppure altalena, oscillazione, memoria, esperienza e relazione, tutti elementi che vanno non solo a gratificare lo sguardo dischiudendo la dimensione del possibile, ma anche a perturbare i provvisori equilibri guadagnati dentro il mondo, complicandoci di non poco la vita.

Deve essere proprio tale elemento squilibrante ad aver suscitato a Rainer Maria Rilke il celebre verso: “la bellezza è il principio del terribile”. Quando nel concorso di Miss Italia di terribile davvero non ci sta nulla. Perché allora prendercela con la povera Alice Sabatini, che in fondo non ha fatto altro che ricordaci cos’è il modesto palcoscenico di Jesolo: non il luogo in cui si ha realmente accesso alla bellezza, o almeno a quella vera giocata in una relazione che muove dallo sguardo a suscitare le emozioni e tutti gli altri sensi, invadendo, scompigliando, ridefinendo il presepe mentale delle nostre quotidiane convinzioni, ma una semplice esposizione per effimeri soprammobili: carini fin che si vuole, ma comunque soprammobili. 

Per ciò, davvero non possiamo rimproverare nulla alla pur gradevole Sabatini: è perfetta così, perfetta per esser posizionata tra un mobile rococò e una dorata specchiera impero.

domenica 20 settembre 2015

Gli immortali, dialogo notturno con il filosofo Jovanotti da Cortona



Noi siamo gli immortali, noi siamo gli immortali, immortali...

E’ il refrain di una delle ultime canzoni di Jovanotti, credo. Credo che sia una delle ultime, intendo non ho mai seguito troppo la sua musica, tanto che nemmeno sono sicuro se si chiami ancora Jovanotti, oppure, adesso, Lorenzo.

Si tratta in ogni caso e certamente di lui: la voce è quella, con la zeppola, leggermente nasale: tra un adolescente che racconta agli amici della nottata trascorsa in una discoteca dall’esotismo padano, e il padre di quello stesso adolescente che lo aspetta sveglio fino al suo rientro mattutino, fingendo a quel punto di dormire. 

Ma neppure io dormo, anche se è l’una di notte passata. Sto guidando, guido senza fretta e guardo distrattamente dal finestrino: Meda, Barlassina, Lentate al Seveso… prostitute slave giovanissime e semi nude, accampate, da sole o in coppia. ai lati della statale 35, la strada dei Giovi. Intanto ascolto Jovanotti, o Lorenzo, vallo a sapere, sull’autoradio. Una stazioncina locale pescata a caso nel mucchio, quella che semplicemente gracchiava meno delle altre. E lo devo dire? Massì, mi sta contagiando, sarà la notte, la nebbia, la Ceres appena bevuta a canna gettando il vuoto dietro al sedile, ma ora seguo il ritmo e le parole, inizio a canticchiare:

“Noi siamo gli immortali, noi siamo gli immortali, immortali…”

Ma cos’è un immortale?, riprende il sopravvento la mia vocina interna, che con cipiglio reclama ragioni logiche e dimostrabili, se non proprio scientifiche. La mano che batteva il ritmo sul volante adesso si è bloccata e stringe con determinazione lo sterzo. Mica esistono per davvero, insomma, gli immortali! 

 Nei fei proprio ficuro? fa eco una diversa voce, quasi impercettibile, come spersa nella nebbia brianzola. –  Ne fei convinto, prova a penfarci bene, incalza ancora la voce, ora più forte e decisa.

Cavoli: ma è Jovanotti!

 Immortale è tutto ciò che non ha una fine – gli rispondo di getto e con piglio deciso, quasi arrogante. – L’immortalità sta nelle mancanza di un termine, un limite temporale, o se preferisci una scadenza, come nello yogurt. Per gli uomini, la scadenza è la morte fisica.

–  La morte, lo yogurt, la fcadenza...  Ok, ok: hai fparato la tua cartuccera di metafore. Ma non è tutto, c'è dell'altro –  risponde lui pacato, vagamente sornione. – Penfaci meglio e poi dammi una risposta. –  Quindi aggiunge, intonando nuovamente la voce in musica: 

“E lo ridico ancora \ per impararlo a memoria \ in questi giorni impazziti \ che qui si fa la storia… noi siamo gli immortali, immortali!” 

– Maddai, Jova, cosa dici?! La storia è fatta di tempo, la storia è l’insieme lineare e cumulativo degli attimi di tempo:“il numero del movimento secondo il prima e il poi”, lo chiamava Aristotele nella Fisica. E cosa c’azzecca la storia con l’immortalità?!  E’  un paradosso, non lo vedi?

– Fì, un paradoffo: embè? –  ribatte un poco piccato Jovanotti. – E poi non mi hai ancora rifposto, finora mi hai moftrato folo l'argenteria del tuo piccolo fapere liceale. Conosci Ariftotele, ok, promoffo. Ma adesso dai, dimmi chi è un immortale, a parte l’ovvia coftatazione che non muore?

– …

– Ti fi è feccata la favella?

 Mi arrendo Jova, dillo tu: ma non fare il furbo, guarda che ho studiato filosofia!

 Filofofia? Bene. Allora dovresti fapere che c’è un altro famofo filofofo, tale Gino Paoli da Genova, che prima di me aveva capito che immortale è chi non ha limite nel tempo, fì, ma pure nello fpazio: immortale è un effere fenza limiti di alcun tipo, un effere “fenza fine”.

– Senza fine… Forse inizio a capire.

– Bene, bravo. Prova allora a dirlo con parole tue.

– Beh, sì, insomma… l’immortalità è una totalità fisica realizzata, un tutto, o meglio l’esperienza cognitiva ma anche emozionale del Tutto. In pratica è una plenitudine – concludo io con il sopracciglio leggermente aggrottato, una percezione totalizzante e satura del reale! 

– Plenitudine, brrr, come parli... Con quefte tue parole dotte e fupponenti non lo vedi che dividi, fepari. Non arriverai mai a comprendere le canzoni, fe continui a parlare a quefto modo. Eppure – continua Lorenzo alias Jovanotti, inghiottendo qualche cucchiaiata di esse –, eppure ti ho fentito, prima, mentre ftavi canticchiano anche tu. In quel momento c’eri quafi arrivato…

– Perbacco, hai ragione Lorenzo, mi sa che sto iniziando ad afferrare. Esperienza, pensiero, emozione. E poi io, tu, mondo. Il tutto frullato dentro la medesima percezione, senza più transenne e steccati. Senza più pensieri e parole, anche. Sì, senza fine... In pratica: un sapere senza conoscenza!

– Lo vedi, che fe ti ci metti…

– Ma allora, riprendo io colto da un’urgenza quasi fisica e senza lasciarlo terminare, la musica leggera, la canzone popolare, al loro meglio sono proprio questa cosa qui: una voce, un ritmo, anche un semplice gesto, l’importante è che ti facciano sentire che noi siamo qui ma pure in un altro posto, in altri luoghi e forse in altre dimensioni. E’ come se, ascoltando la tua canzone, Jova, percepissi che c’è un poco di me da tutte le altre parti e in tutti gli altri tempi, soprattutto nelle altre persone. E questo segreto non riesce a entrare nel mucchio di libri che ho letto finora, nemmeno nei manuali di filosofia.

– Bravo! – risponde Jovanotti dandomi una sonora pacca sulla spalla.

Va be’, la pacca sulla spalla non me l’ha data, e forse nemmeno mi ha risposto mai, Jovanotti, Lorenzo, come accidenti volete chiamarlo, anche se l’ha fatto con la sua canzone. Una semplice e leggerissima canzone, non un trattato di filosofia, non un'equazione matematica, ad accompagnare questo viaggio notturno tra capannoni in eternit, sale giochi, distributori automatici di preservativi, centri scommesse, lampioni, distributori di benzina, pizzerie, concessionari di automobili, saloni cinesi di massaggi e poi femmine, femmine tante e in lunga processione, tutte giovani, scosciate e bellissime. Quasi fosforescenti.

Ma una è più bella e nuda e fosforescente delle altre, sembra che mi guardi, sì mi sta guardando, sorride e poi strizza l’occhio. No, non strizza l’occhio al potenziale cliente, lo strizza proprio a me: è un cenno di intesa, di complicità! Forse ha compreso che, finalmente, ho compreso anch’io. E mentre gli altri dormono, io e lei ci guardiamo ancora e lo sappiamo. Anzi, lo sentiamo: perché davvero noi siamo immortali!


martedì 15 settembre 2015

Sottobosco, o sull'amicizia ai tempi di Facebook


Ieri ho pubblicato un thread su Facebook. Lo riproduco qui, pari pari. Decidete voi se si tratti di un quasi-racconto, o di una mezza "cagatina":


E' molto bello e gratificante stare qui con tutti voi, che siete i miei cari amici di penna, i miei amici di Facebook. Mi ricorda quando da bambino facevo la cacca in un bosco. Subito dopo cercavo nel sottobosco, tra gli umidi e fronzuti paraggi che a volte mi toccava perlustrare con i pantaloni calati a mezza gamba, la camminata lenta e a ginocchia divaricate, da lottatore di sumo, qualche foglia ampia e non troppo ruvida, con cui pulirmi il culo. La merda sono ovviamente i miei pensieri, ho pensieri di merda, come potete ben vedere. Ma spero che di questo saprete perdonarmi, su dai non fate troppo gli schizzinosi, voi che siete i miei cari amici di penna, i miei amici di Facebook. Anche perché avete pensieri di merda pure voi, mi dispiace dirvelo ma tutto quello che pensate e scrivete ha l'odore della merda, la sua consistenza molle e opaca e appiccicosa, plasmabile, come Pongo dei poveri. E se non è merda lo diventa, seguendo il destino di una torta nuziale dopo il banchetto. Magari una di quelle belle torte a sette piani, le statuine di marzapane che si baciano teneramente alla sommità, tra lamponi rossi rossi e panna spumeggiante che tutto copre e benedice, comprese le negligenze del pasticcere. Prima era lì, poi una fetta, due, tre, e ora la sposa sente un rumorino dentro la pancia, deve correre in bagno tenendo sollevato il lungo strascico bianco, mentre con l'altra mano lancia alle spalle il suo bouquet. Chi lo piglia, sgomitando a tutto spiano, è in genere la più merda di tutte... Ma no, adesso non offendetevi, io sono uno che ci tiene all’amicizia, e già sapete che voi siete i miei cari amici di penna, i miei amici di Facebook. Non è nemmeno colpa vostra, colpa nostra: è solo che qui tutto è deiezione sintattica, residuo grammaticale maleodorante, un bolo escrementizio prodotto dall'urgenza di esistere almeno attraverso le parole, visto che gli specchi non riflettono più i nostri volti rubizzi, contratti nello sforzo di espellere ogni forma reale di esperienza. E allora poco male se ciò che scriviamo viene presto rimosso e dimenticato, per lasciare spazio a più recenti e fumiganti cagatine. Così miei davvero cari amici di penna, amici di Facebook, finiamo con l'essere l’uno all’altro la foglia, l’uno all’altro la felce con cui pulirci di volta in volta il sedere, mentre la nostra amicizia si fonda su un’incessante e torrenziale diarrea. Per questo devo ringraziarvi ancora una volta, ma proprio tanto: non solo per essere i miei cari amici di penna, i miei amici di Facebook, ma per come vi lasciate cagare in faccia con pazienza e dedizione, che ricambiate cagando di continuo in faccia a me. L’amicizia si riconosce anche da questi minimi gesti di affetto e complicità. E noi siamo amici, amici per davvero. Anche se solo di penna. Amici al tempo di Facebook.

lunedì 14 settembre 2015

Sfratti, o sul tempo che passa anche sotto i sofà



Una donna, superati i cinquant’anni di età, vive il suo corpo come un uomo che avrebbe voluto nascere in un altro sessso, e si consola con un'altra sessualità. Entrambi somigliano a quei personaggi che si risvegliano in un letto diverso dal proprio socchiudono gli occhi con fatica, la luce gli dà fastidio, poi li spalancano in un soprassalto di consapevolezza  dopo una sbornia particolarmente pesante e lacunosa, con la bottiglia del gin ancora mezza vuota sul comodino. Ed è d'obbligo, nei film, l'ignoranza non solo delle ragioni e i sentieri che li hanno condotti lì, ma anche della misteriosa sagoma che ronfa acciambellata al loro fianco. La quale si rivela, neanche a dirlo, una creatura bellissima, che in alcune varianti raggiunge solo in seguito il nostro smemorato eroe tra le lenzuola sfatte, portando un'abbondante colazione. Qui invece si risvegliano soli, e per quanti sforzi facciano per tornare a casa, non trovano le chiavi del portone.

E’ una frase che mi ha detto un giorno una ragazza di nome Stefania. Mi sembra un paragone bizzarro e arguto, che io ho rielaborato solo un poco. Magari, con maggiore indulgenza, potremmo alzare l'asticella a sessanta, perfino settant'anni come si dice "ben portati", estendendo ai maschi, sempre più narcisi, il memento senectute. L'ospizio è in ogni caso già dentro di noi, non fuori. E viviamo sempre sotto sfratto.