lunedì 19 novembre 2012

Studenti e forze dell'ordine, o sul complesso di Geremia




Era già successo a Genova nei giorni terribili del G8. Capita nuovamente, come era purtroppo prevedibile, negli scontri tra polizia e cortei studenteschi che hanno infiammato Roma la scorsa settimana. Ma è quel che accade quotidianamente anche in un qualsiasi giardinetto, e lo sa bene chi possiede un cane. Provo a spiegarmi meglio.

Da dieci anni mi fa compagnia un magnifico e placido Golden Retriver di nome Peppa. Come anticipato, è il cane più buono del mondo. Peppa di qui, Peppa di là – al giardinetto di via Parolo il mio cane ormai è famosissimo – le sussurrano compiacenti gli anziani, o i bambini in acute ed euforiche modulazioni. Da tutti, lei, la Peppa, si lascia fare qualsiasi cosa, nella speranza che dalla cernira di una sporta o dal risvolto di un  loden spunti croccante un biscottino. Anche con gli altri cani la Peppa manifesta un’insolita tolleranza. Rimane però il fatto che è un bestione di quarantun chili, e che quando – anche questo non è raro – un cagnetto che è una manciata ringhiosa d’ossa si fa troppo pressante la Peppa possa reagire. E quando lo fa, è sempre con un’insospettabile e scomposta veemenza.

Certo, nei bisticci tra cani non esiste uno sfondo politico e ideologico, a ricollocare le ragioni e i torti con il criterio di una razionalità ponderabile, per quanto mai del tutto certa. Aveva ragione Fido, il quale rivendicava l’esclusiva di quel pezzetto di legno trovato sotto la betulla, oppure Tuono, che gliel’ha soffiato con un bau? Chi lo sa…. Sta di fatto che quando il più forte viene sfidato in campo aperto dal più debole, dagli e dagli, ma il forte prima o poi reagisce, e per il debole di solito sono cazzi. A questo livello non è insomma un problema etico, ma per dirla con Nietzsche: di “potenza”.

Ma facciamo un passo ulteriore, oltre la potenza e verso il diritto. Quando il Ministero dell’Interno per il tramite delle forze dell’ordine, come è suo dovere fare, pone degli argini toponomastici allo sfilare dei cortei (la famosa “zona rossa” di Genova), non sta compiendo un atto violento di arbitrio, ma cercando semplicemente di garantire la normale prassi democratica nella manifestazione del dissenso; e ciò a tutela dei cittadini ma anche degli stessi manifestanti. La sciagurata scelta del corteo genovese – e non mi sto riferendo ai famigerati Black Bloc, ma ai riconosciuti leader del movimento, tra cui Emanuele Agnoletto – però fu: superiamo la linea rossa, invadiamo lo spazio negato anche solo di una decina di metri. Tutto ciò, beninteso, pacificamente, per dimostrare in forma simbolica la dissidenza all’autorità. Ci può stare in effetti, come gesto espressivo.

Ma ci può allora stare, in questa logica di sfida del debole al forte, anche la reazione scomposta delle forze di polizia chiamate a presidiare quella linea. I quali poliziotti – e non mi sto nuovamente riferendo ai fatti di Bolzaneto, faccenda del tutto diversa e da tutti i punti di vista obbrobriosa –, i poliziotti abituati più alla pratica marziale che alla sottigliezza dei simboli, cercarono semplicemente di ripristinare l’ordine costituito. La loro unica colpa, non per questo meno grave, in taluni casi anche penalmente, fu di farlo con sistemi davvero rozzi e brutali, in un’ inadeguata catena di controllo e di comando.

Stessa dinamica negli scontri romani dei giorni scorsi. Esistono ogni volta dei limiti formali allo scorrere del corteo, delle dogane invisibili, per quanto dichiarate, che si sceglie deliberatamente di forzare, determinando la rabbiosa risposta del bestione. Posto l’esempio nella sua tenace ricorrenza – cane piccolo contro cane grande –  ciò che voglio dire non è che abbia sempre ragione il cane grande, infastidito dalla petulante ostilità del piccoletto. Ma nemmeno questi, il piccolo, e nella fattispecie i numerosi movimenti di protesta per la semplice e tautologica ragione del loro essere contro, si collocano automaticamente dalla parte luminosa del Giusto e del Vero. E ciò perché oltre alla ragion pura esiste una ragione che non è tanto o solo pratica, come vuole la formula filosofica, e che potremmo chiamare strategica, dove l'aggettivo è inseparabile dal sostantivo.

Ora, non dico un generale d’armata, ma anche un qualsiasi allenatore di prima divisione calcistica sa che prima di scendere in campo con l’AlbinoLeffe, mettiamo, bisogna essersi preparati: oltre che fisicamente, con un’adeguata strategia e una conseguente tattica di gioco. Se tu sei Ulisse, ad esempio, non vai da Ciclope e gli tiri un calcio nei coglioni, perché se no poi le prendi, quello ti schianta. Meglio, anche, se gli indichi un nome falso e lo blandisci di continuo, mentre arroventi la punta di un tronco da cacciargli nel monocolo quando dorme. A meno che il tuo obiettivo non sia proprio questo: prenderle, perdere. Diversamente, cerchi di fare tutto il possibile per spuntarla, ribaltando con l’intelligenza la disparità svantaggiosa nella forza.

La coscienza di quanto sia importante adeguare la propria azione alla distribuzione delle forze in campo, specie quando la bilancia pende a nostro palese svantaggio, trovò nel generale Giap il maggiore interprete moderno, applicando la sua innegabile intelligenza all'invenzione di strategie di guerriglia che sono ancora adesso utilizzate. La domanda che mi piacerebbe rivolgere ai leader del movimento studentesco, alla luce dell’esperienza dello scaltro comandante dei Vietcong, non è dunque quella se ritengano o meno di essere eticamente nel giusto (questo, personalmente, io mi sento di riconoscerglielo) ma piuttosto sull’opportunità strategica dei loro mezzi. Già che la valutazione politica, che è ciò per cui in fondo essi manifestano –  una diversa politica – , è data dalla proporzionalità dei mezzi (concreti) ai fini (morali).

O ancora più a monte, e lo chiedo davvero con curioso candore: cari studenti, intendete la vostra azione quale dissenso democratico circoscritto all’interno di un sistema formale di regole, a cui nell’intimo vi sentite leali, oppure no? Perché in tal caso sarebbero gli stessi legami istituzionali a esser posti in discussione, estendendo le ragioni contingenti della contestazione – i tagli all’istruzione, le politiche sociali, la palese subalternità dei governi europei verso le banche e i sistemi finanziari – a un orizzonte strutturale, che trasforma una contestazione in una vera e propria guerriglia. Si combatte infatti quando vengono meno le premesse dialogiche (i cosiddetti “valori comuni”) che rendono ipotizzabile una mediazione tra le rispettive istanze, nello slancio verso una pace che non è dunque più figura del compromesso, ma generazione dell’inaudito.

Se la risposta alla domanda fosse, come io auspico, affermativa, allora e semplicemente si deve stare al di qua delle linee simboliche che in una società democratica delimitano il dissenso, come era per le erme che delimitavano le vie dell’Atene democratica del quinto secolo. Mutilando le erme, Alcibiade o chi per lui, si pone al di fuori del sistema sociale ateniese, ipotecando il proprio futuro ostracismo.

Ma nel caso la risposta fosse invece negativa, beh, allora, ragazzi, fatevi furbi… Non si va a sfidare un massiccio Rottweiler quando si è un grazioso Yorkshire con le treccine, che la sera si corica nella cesta tiepida di un attico dei Parioli. Credo che fosse essenzialmente questa l’obiezione – prepolitica quindi, estetica fino allo struggimento – formulata da Pasolini nella famosa poesia su ValleGiulia. I poliziotti, allora come adesso, erano lì a presidio di un sistema ingiusto e autoritario, e le rivendicazioni degli studenti erano anche in quel caso del tutto legittime. Ma puerile e scomposta e violenta fu la loro azione, come se ci fosse un compiacimento nel ricevere gli sganassoni di un padre occhiuto e severo. Aggredire per poi lamentarsi con la Mamma, ecco. Vecchio gioco di chi è atteso in una sontuosa tana colma di bende e cerotti..

Viene addirittura il dubbio che più che l’eterna contesa illuminata da Freud con il complesso di Edipo – i figli che cercano di uccidere simbolicamente il Padre – sia in atto un'altra e differente dinamica psicologica, che potremmo chiamare “complesso di Geremia”, in ricordo del profeta biblico. Colui che seppe prevedere con anticipo e lungimiranza l’invasione dei Babilonesi, ma che non solo non venne creduto – come per altro adesso avviene con gli studenti, che vengono tutt’al più ascoltati con l’infastidita tolleranza che si accorda a un raffreddore passeggero – ma finì con l’essere ricordato più per le proprie continue lamentele, che non per ciò che di vero e profondo seppe prefigurare.

Ed è incrociando uno dei portavoce del movimento studentesco in televisione, che si rafforza in me questa idea. Quasi nulla mi è rimasto dei contenuti politici della protesta da lui elencati con burocratico puntiglio, e piuttosto il basso continuo di lagnanze, geremiadi, querimonie e lamentazioni bibliche, formulate però in un acuto e tignoso registro vocale: “Polizia cattiva, brutta, cattiva, io metto il casco anche se non si può, tiè, ahia, bua, polizia di merda…”

Ma se i manganelli fanno male – e fanno male! – non è meglio allora stare al di qua dei divieti suggeriti da un puro buon senso organizzativo, manifestando così nel senso etimologico del termine (rendere manifesto) un malessere che in tal modo possa essere riassorbito in discorso, in logos pubblico e dialettica democratica. Evitando di oltrepassare gli impalpabili Rubiconi che segnano il limes simbolico di una comunità costituita, e oltre i quali la sfida si fa diretta, fisica, verso un’autorità vicaria con cui siamo certi di uscire con le ossa rotte (tecnicamente, si chiama masochismo). O diversamente, preso atto del venir meno del recinto morale della polis e avvertendo l’altro come semplice estraneo, quel che bisogna imparare è l’arte duttile della strategia, producendo effetti commisurati alle intenzioni. Quell’arte strategica che suggerì a Davide di non dare appuntamento a Golia sopra a un ring, ma di comprarsi una fionda.