domenica 29 aprile 2012

A ciascuno il suo, o sulla misura verbale delle nostre spalle

Ieri stavo per dire una cosa bruttissima. Ho incontrato a un concerto degli Alligator Nail una giovane donna che conosco da tempo. Non siamo propriamente amici, ma insomma.  Mi è comunque molto simpatica, anche se l'avverto come definitivamente lontana dai miei pensieri, i miei gusti, ossia da quel fragile castello di carte che nei momenti di maggiore ottimismo chiamiamo io.

Lei a un tratto e senza un apparente accordo al contesto, mi dice: Non ho ancora avuto il tempo di dare un'occhiata a quel che scrivi. E io - ecco la cosa bruttissima - stavo per risponderle: Va bene così, non preoccuparti. Forse è anche meglio. Non sei tu quella a cui mi rivolgo quando pigio le dita su una tastiera.

Risposta che per fortuna non è uscita dalle mie labbra, ed è stata intercettata con anticipo dai gendarmi che sorvegliano la dogana dell'espressione. Ma forse proprio perché bloccata a questo modo, senza i documenti di un accettabile galateo, la frase è rimasta per molto tempo a ciondolare sul confine delle mie certezze, in attesa di una risposta più persuasiva. Che è dunque l'oggetto della mia riflessione attuale.

E' vero, è inutile essere ipocriti: ci sono alcune persone che vengono escluse dalle intenzioni dei nostri gesti, siano essi fisici o comunicativi. I pubblicitari questa condizione la conoscono benissimo, e la chiamano target. Ma anche in linguistica, da molto tempo, si è fatta spazio una simile intuizione, ricapitolata dentro la nozione di lettore implicito. Ogni esercizio narrativo somiglia insomma a una lettera: non si scrive qualcosa ma si scrive a qualcuno, nella migliore delle ipotesi a molti, ma mai a tutti.

Per travasare i propri pensieri sopra a un foglio - elettronico o cartaceo poco importa - è dunque necessario uno sforzo preliminare. Quello di collocare al centro del palcoscenico dell'immaginazione un interlocutore potenziale, uno soltanto, con i suoi tic e le sue manie, appetiti e idiosincrasie, un soggetto astratto ma pienamente definito in ogni suo aspetto, che con le nostre parole ci assumiamo l'impegno di prendere per mano e condurre a un ideale accordo tra di noi.

In una bellissima e recente conversazione pubblicata sul web, il famoso psicanalista Massimo Recalcati dichiara di essere stato un bambino con grossi disturbi di comprensione, uno dei pochi ancora bocciati nel corso scolastico elementare, ammette senza i falsi pudori dello status acquisito. Per questa ragione, aggiunge, ora sente il bisogno di depurare il pensiero di Lacan dalle sue vezzose tortuosità, restituendolo nel modo più semplice e chiaro. E ciò come se dovesse farlo comprendere, nella sua accessibile sillabazione, anche al bambino un poco "idiota" che fu, in un corto circuito tra presente e passato che io trovo commovente.

Sembra che il Recalcati adulto voglia caricare sulle spalle della sua attuale intelligenza anche il Massimo bambino, e alla maniera di Enea con il vecchio padre Anchise trasportarlo fino alla terra promessa della comprensione. Solo che il vecchio, qui, si trasforma nel fanciullo, in Ascanio, restituendo valore tripolare all'apparente contrapposizione di padre e figlio. La funzione adulta del pensiero diviene così quella di una sorta di spoletta tra le diverse generazioni del sé.

Questo estensione psicanalitica alle teoria della comunicazione narrativa, io la trovo in ogni caso molto suggestiva. Mi ricorda un altro aneddoto riferito ai primi anni settanta, riportato da Giuseppe Pontiggia nei suoi seminari di scrittura. Il New York Times era in sciopero da lungo tempo, una vertenza sindacale per il rinnovo del contratto, ora non so bene. Un giornalista di una diversa testata era quindi andato a intervistare il direttore del NYT, con cui aveva discusso la materia del contendere. Quando il colloquio tra i due si avviava al termine, il giornalista richiese però anche un parere sui recenti sviluppi della guerra in Vietnam. Al che, il direttore replicò serafico: Mi dispiace, a questa domanda non sono in grado di rispondere. Come vede, siamo in sciopero.

Ma come siete in sciopero?, sbottò l'altro con allibito disappunto. Lei è il direttore del New York Times, uno dei giornali più importanti del mondo - più "autorevoli", si direbbe adesso -, lei è un uomo colto, un famoso giornalista, un intellettuale perfino, e non è in grado di formulare un'opinione su una questione tanto capitale, che coinvolge le discussioni di semplici cittadini anche nei bar, alla fermata degli autobus, nel mesto andirivieni delle sale d'attesa dei dentisti... E cosa c'entra lo sciopero con tutto ciò?!

Ha ragione, rispose il direttore del quotidiano dopo una lunga pausa. E senza scomporsi proseguì: Io sono il direttore del New York Times e non possiedo un'opinione sulla maggiore catastrofe in cui è invischiato il nostro Paese. E però, vede, essendo in sciopero da oltre una settimana, io da quella data non sto più scrivendo. E se non scrivo, come faccio a sapere quel che penso?

Se non scrivo non posso sapere quel che penso... Non male, vero?

Scrivere per pensare e non, come si crede ingenuamente, pensare per scrivere. Ma a questo modo anche il direttore del New York Times prendeva per mano il bambino che era stato, si caricava sulle spalle il vecchio che sarà. Uno slancio della pietas precristiana che può avvenire solo con l'ausilio di quell'affilatissima picozza che è la parola, con cui accompagnare entrambi - il vecchio e il bambino - alla soglia di un'opinione condivisa.

Una dialettica interna, insomma, prima ancora che un composto giudizio pubblico. Senza parole, e dunque anche senza scrittura, non esiste infatti neppure opinione, pensiero, concetto, perché diversamente da quanto pensava Socrate le conoscenze non diventano disponibili solo nel rapporto con un altro, ma dallo sporgersi attento sul proprio pozzo privato. Diversamente anche da quanto creduto da Platone, le idee personali non sono però ferme e immutabili come pescetti, da infilzare già belli e cotti a pelo d'acqua, ma hanno la mobile forma discorsiva di un'anguilla.

Tornando allora alla giovane donna di ieri sera: non è tanto importante, davvero, che lei legga quel che scrivo. Non che io la ritenga meno colta o intelligente o sgamata di me, ma è semplicemente troppo diversa perché io mi possa rispecchiare in lei, e lei in quel bambino e in quel vecchio, così simili al mio ritratto, con cui provo ogni volta a dialogare. Ognuno ha la sua famiglia, per così dire. E spalle troppo piccole per caricarci sopra il mondo intero.

martedì 24 aprile 2012

Ti volevo un attimo briffare, o sulla lingua dell'Altro


"Ti volevo un attimo briffare sulla cosa". Ecco, non c'è probabilmente bisogno di aggiungere alcun commento. Niente, almeno, su ciò che da tale stralcio di conversazione telefonica si deduce, ma piuttosto sul come, sulle parole con cui si dice. Neppure è tanto importante sapere che a pronunciarle, in questo caso, è Nicole Minetti parlando con l'amica di una serata da organizzare con il Presidente del consiglio, quello ancora in carica quando le due ragazze programmano il festino. Sarebbe sufficiente se anche fosse stato un ragazzetto di quindici anni chattando su facebook, o la vicina di tappetino durante una lezione di Pilates, ti volevo un attimo briffare sulla cosa, questa non è più lingua italiana ma una diversa manifestazione vocale. Cerchiamo di capire.

Quelli che tutti giornali riportano, e noi con loro, sono con ogni evidenza altri suoni, altri segni e soprattutto altrimenti da come noi ci autopercepiamo nei confronti di un ideale interlocutore, senza con ciò volere emettere alcuna sentenza morale su chi si esprime in tal modo. Una sensazione di totale estraneità, di incomprensione radicale che a chi legge questo blog sarà di certo già capitata. Ma non possiamo negare anche una sorta di risentimento interiore, se vogliamo anche un po' snob, che trova ad esempio espressione nel cinema di Nanni Moretti, e in particolare nel suo urlo liberatorio al termine di una memorabile sequenza di Palombella rossa, così rivolgendosi a una giornalista particolarmente disinvolta: "Ma come parla, come parla... le parole sono importanti: COME PARLA!?"

A maggior ragione tale sensazione, da fisica, viscerale, si farà strada nel pensiero se facciamo tesoro di quanto linguistica e antropologia sostengono riguardo la funzione aggregante di un idioma, riconosciuto quale principale fondamento di una comunità umana strutturata, con il suo ethos che discende dai dispositivi significanti della lingua stessa.

Non siamo infatti noi a parlare originariamente una lingua, ma da essa siamo come parlati, preintenzionati, diretti attraverso i codici inerenti quella specifica modulazione verbale, ad articolare il discorso prima ancora che apriamo bocca. Ed è dunque sempre la nostra vecchia lingua, con le sue strutture sintattiche, vocalità acquisite, radici semantiche occulte a rilasciare il sovrasenso di cui è portatrice ogni singola parola, dopo che questo si sia sedimentato nei calchi fono-grafici di una cultura viva e radiante, allo stesso modo di una pietra rimasta esposta al calore per molto tempo.

Oppure possiamo immaginare un linguaggio come una cialda di Alka-Seltzer, che si discioglie in bollicine a contatto con l'acqua del bicchiere. Bene, se la pasticca è la lingua l'acqua che l'attiva sarà allora l'esperienza concreta dei singoli parlanti, mentre le pareti solide del bicchiere saranno quelle normative e giuridiche dei saperei costituiti, che ne limitano l'azione in una forma ora nuovamente pubblica e controllata dalle istituzioni (l'Università, in primis).

Il celebre psicanalista francese Jacques Lacan chiamava, al solito enigmaticamente, Grand Autre tale giacimento linguistico di significato, con un nome che ne rimarca l'irriducibile alterità. Ma in fondo la sua lambiccata riflessione contiene un'intuizione perfino elementare. C'è infatti il mondo, che è per definizione altro da noi, quale luogo dell'esperienza. Esiste poi la percezione che rappresenta il nostro proprio. Quindi c'è il significato da assegnare alla percezione che discende dall'esperienza, e in cui Lacan ha visto qualcosa come un altro di carattere più generale e condiviso, un Grande Altro, a sottolineare come nel processo di significazione entrino in gioco categorie che esorbitano il soggetto titolare del processo di nominazione, e che sono ereditate quale sorta di dna di ogni lingua.

Il Grande Altro, detta diversamente, rappresenta il codice simbolico che precede e quindi informa il giudizio - estetico, morale, perfino logico, alle volte - ed è dunque il campo in cui è primariamente insediata la contesa del Potere. Il Potere si nasconde insomma nel risvolto delle parole, pronto a sgusciar fuori quando meno te l'aspetti, come l'asso dalla manica del baro.

E così Nicole Minetti, quando briffa per telefono l'amica sulla cosa, manifesta probabilmente oltre le sue intenzioni la natura aliena del linguaggio, che produce e ricapitola le dinamiche vecchie e nuove del Potere. Vecchie e nuove, sì, perché Minetti e chi parla nello stesso modo, così dicendo dichiara la sorgente altra del suo Grande Altro, se ci perdonate il bisticcio di parole. Una sorta di alterità al quadrato: il suo altro è altro da lei ma anche dal nostro altro, direbbe ancora Lacan aggrottando le folte ciglia, ossia divergente dai poteri consolidati in antiche grammatiche ed esausti galatei.

Diversamente, quella che sgorga garrula dagli infiniti cellulari posti sotto controllo per poi colare, sempre più vischiosa, nelle pagine dei giornali e tra le maglie del web, è una neo-lingua smozzicata e intrisa di anglicismi, ormai distante dalle facoltà umane di riconoscimento reciproco. Un po' come il palloncino che si congeda dalle mani di un bimbo distratto: un puntino bianco che si confonde con le nuvole soffici e chiare, prima di disperdersi nel blu.

Ma se per il bambino è già pronto l'uomo dei palloncini con la bombola satura di elio, nella divaricazione babelica e postmoderna dei linguaggi viene a mancare quella comune radice linguistica che è fonte del patto sociale, rendendo impraticabile anche il lavoro di sillabazione della politica. Dato un medesimo sfondo, un comune panorama simbolico di riferimento, il gesto politico cerca infatti di indirizzare la discussione verso un recupero impossibile della parola parlata - un gesto perciò sempre rinviato, in fieri -, forzandola dentro gli argini fasulli del concetto.

In ogni caso, questo slancio ottimistico della volontà verbale, benché utopico, non è del tutto vano, perché produce azione sociale e trasformazione storica, concorrendo così alla gestazione di nuovi nuclei significanti, che si depositeranno anch'essi nella lingua modificandone progressivamente i simboli e le strutture.

Ma il movimento della politica non può fondarsi unicamente sulla razionalità discorsiva, riuscendo a dispiegarsi solo a partire da quella convergenza simbolica che, come abbiamo visto, scava la sua tana dentro la caverna ombrosa di ogni lingua. Non è dunque una casualità se anche la prassi democratica prevede alcune forme di ostracismo - la messa al bando di partiti e movimenti che si richiamino espressamente al Nazismo, ad esempio -, già che senza una concordanza grammaticale non può nemmeno esserci lo scioglimento sintattico prodotto dalla dialettica delle parti, ma solo un conflitto pre-razionale tra brontolii semantici tra loro inconciliabili.

O se preferite, la democrazia contiene al suo interno un nucleo non negoziabile di Potere, che, per essere efficiente e riprendendo una metafora cara a Jean Baudrillard, deve rimanere sigillato dentro le pareti occulte della lingua, così come i lingotti d'oro vengono seppelliti nei forzieri delle banche centrali. Tale gesto di sostituzione assicura al sistema economico l'autorità del suo ordine formale, mentre nel linguaggio - sempre fondato su una sostituzione - sì dà la circolazione delle opinioni in parte però già preformate. Di conseguenza anche la lingua, senza un giacimento aurifero sottratto all'evidenza, si consegna all'inflazione dei significati, insieme alla comunicazione che equivarrà allora alla lieve e contingente oscillazione valutaria. Sempre arginata dai limiti taciuti del Potere, sia chiaro.

Ecco, io trovo allora che le parole di  Nicole Minetti, per quanto estorte da una conversazione privata, testimonino il raggiungimento di tale livello zero della comunicazione, che conduce a un'impasse dell'economia sociale: tra noi e loro, tra il nostro altro e il loro altro, sono venuti meno i codici linguistici di raccordo. E dunque anche una politica fondata sulla logica e la mediazione discorsiva, a queste condizioni, non è più praticabile. Perciò la nuova politica si offre solo nelle forme del dominio e dell'insubordinazione: o stai con quelli che briffano e cosano, o stai contro di loro per vincerli, cacciarli dal tempio, imporre il sigillo del tuo verbo sopra a quel che le orecchie intendono come la miseria del loro balbettare.

Una politica ulteriore, già che la nozione di novità è ormai ostaggio permanente del marketing elettorale, si darà allora solamente nelle forme agite del conflitto sociale. Oppure - ma qui siamo in piena utopia edificante - in quelle meditate dello studio, della conoscenza, del lento e faticoso ripristino di una lingua veicolare, in cui tutti possano nuovamente riconoscersi e comunicare. Ma forse, più realisticamente, sarà lingua di "cose da briffare". E allora dovrà essere la pigrizia nostalgica di un rassicurante petrarchismo a essere accompagnata alla porta dalla caotica vitalità dei nuovi barbari. Dal momento che posti in piedi, a questo eterno show che si rinnova tra la laringe e il palato, non se ne danno.

L’alluce e il libro, o sul destino comico dell’Occidente



Io possiedo moltissimi libri. Non che li legga tutti, anzi una minima parte, e però continuo ad acquistarne per accumularli sugli scaffali esausti della libreria Billy, l’unico mobile Ikea che sono riuscito a montare da solo, seguendo i disegnini. Ma il mio appartamento milanese contiene solo quattro Billy, e così la maggior parte dei libri, ancora intonsi, vengono dirottati a Sondrio, dove vive anche mia madre.

Mia madre di lavoro faceva la maestra, insegnava ai bambini a leggere e scrivere. Due cose che solo da grandi si impara a tenere separate – la scrittura e la lettura – e non è detto che questo sia propriamente un guadagno. Una volta ho incontrato un aspirante poeta che, alla mia domanda su cosa stava leggendo, ha risposto serafico: Io le scrivo, le poesie. Non devo mica leggerle.

Forse per questo – tenere a debita distanza la boria autoriale – mia mamma ancora adesso legge molti libri, e mi corregge se uso un’espressione gergale o maltratto in qualsiasi modo la grammatica e la sintassi italiane, con l’eccezione del dialetto che considera una lingua di pari dignità.

Ad esempio, se dico a qualcuno “buona serata”, mettiamo che abbia appena finito di cenare e stia parlando al telefono, lei inizia a borbottare che le persone normali non fanno le serate: hanno delle semplici sere, quiete sere di fronte alla televisione, con l’unico vezzo di una fumante tisana alla melissa. Allora bisogna dire buona sera, cos’è questa mania delle serate, siam mica diventati tutti Gianni Agnelli, o suo nipote Lapo Elkann.

Insomma, credo che sia chiaro il tipo: anziana maestra in pensione, che si distingue dallo stereotipo della professoressa di lettere o latino per un atteggiamento molto più concreto, non reverente verso la cultura che pure ama e frequenta.

Sarà forse per questo lato artigianale della sua professione che, ogni tanto, mia madre prende un libro – un mio libro, meglio, uno dei tanti che pesca a casaccio da uno scaffale – e lo infila tra lo stipite e l’anta della finestra, per non farla sbattere nei mesi estivi e spesso anche in quelli invernali, ché l’aria deve scorrere abbondante in una casa, o almeno così stava scritto nell’inserto salute di un qualche quotidiano.

Ma cos’è, esattamente, la salute?

La salute è un’idea, a ben pensarci. O meglio un’ideologia, un mito moderno, una scintilla gnostica spersa in una trama vischiosa e indifferente, e tutt’al più si può parlare ragionevolmente di benessere, l'immaginario punto dinamico di equilibrio tra opposte funzioni: la vita e la morte, semplificando al massimo l’equazione della vita. 

Così, quando gli opposti non si integrano o bilanciano, abbiamo la malattia, il degrado fisico, i mobili che cascano sotto al peso dei vecchi libri. Mentre nel campo dello spirito, possiamo immaginare un correlativo nella struttura drammaturgica della tragedia, o in quella pseudo-tragedia costituita dai fantasmi petulanti della mente, ora chiamati nevrosi.

Se la malattia trova il suo equivalente narratologico nella tragedia, la nevrosi, un male che istituisce se stesso per poter godere del suo proprio e tangibilissimo dolore (immaginiamo una libreria Billy che si monta da sé, come quei libri per bambini in cui intere città di carta si levano d'incanto allo sfogliare della pagine), la nevrosi potremmo allora vederla come una variazione del registro comico, o se preferite farsesco.

La natura eminentemente nevrotica – e dunque farsesca – nel rapporto di molti figli con i loro genitori, specie con il passare degli anni, io l’ho scoperta la prima volta che ho ritrovato un (mio) libro conficcato nel vano di una finestra socchiusa, un (mio) libro stropicciato e fradicio dei goccioloni di un ringhioso temporale estivo!

Alla sfuriata da bambino tradito nel possesso dei suoi balocchi (ho 46 anni), mia madre (che ne ha 75) ha reagito ricordandomi di come la sera prima, pure io, cosa alzo tanto la voce, non avevo portato i sacchetti gialli della plastica in strada. E così ora bisogna aspettare un’intera settimana, per la nuova raccolta differenziata.

Cosa c’entra, uff… adesso cosa c'entra la raccolta differenziata con il (mio) libro?! Ok, si trattava di un autore danese pubblicato nei tascabili Feltrinelli, non una grave perdita, ma non potevo ugualmente fargliela passare liscia. Cosa c'entra, ho proseguito dunque con voce piccata, cosa cavolo c'entrano le bottiglie vuote della Levissima e la plastica del prosciutto cotto sottovuoto con il (mio) libro trattato in quel modo indegno, offeso, rovinato dagli stipiti e dalla pioggia e poi comunque son sempre quattrini, argomento a cui mia madre è generalmente sensibile.

E allora tu, ribatte lei, che è da tre mesi che non ti tagli le unghie dei piedi!

Ecco, ora prendete questa conversazione surreale e spalmatela sull’arco di almeno dieci anni. Tempo in cui mia madre ha perseverato nell’incuneare i miei libri dentro a porte e finestre, solo che adesso ha imparato a negare il fatto nei suoi numerosi effetti, per altro visibilissimi, e io per ripicca non mi taglio le unghie dei piedi e trascuro la raccolta differenziata, prendete questa scenetta e avrete l’essenza formale del comico: la disfunzione.

Cos’è, infatti, la disfunzione, se non l’incapacità a scorgere in un oggetto una funzione diversa da quella consueta? Con questo imprimendo alle due funzioni – l’abituale e l’inaudita – uno stridore sinistro, ma esilarante se osservato da un punto di vista esterno da cui contemplare l’attrito.

E ho parlato di oggetto ma, naturalmente, tale attributo di cosa può venire a possederlo anche un sentimento o un pensiero in forma reificata, che è un altro sintomo tipico della disfunzionalità nevrotica: l’essere incapaci di empatia, di intendere il “gioco”dell’altro nella sua forma storicizzata e fluida, fissando al contrario l’esperienza nella meccanica della ripetizione.

Non è così leggendolo dentro i miei libri che ho compreso la natura una volta tragica, ma ora comica, di buona parte delle relazioni che intratteniamo con chi ci è più vicino. No, l’ho capito dalla copertina, già che le verità più profonde, per paradosso, spesso sono proprio quelle che stanno a galla e che non vengono occultare, come la nudità del Re.

Copertine segnate, macilente, stropicciate. Copertine passate attraverso l’incudine di una porta e il martello di una finestra che sbatte. Ma a ben vedere sempre copertine sono, involucri. Ciò che ci sta dentro è materia ­ – pagine, carta, cellulosa compressa, dunque ottimo cuneo provvisorio per serramenti ventilati – ma anche spirito – idee, passioni, teoremi, estro felice e cresta spumante dei giorni, che poi si avvita nella risacca cupa del tempo.

Spirito e materia, già. Vita e morte, ancora, vecchie madri e non più giovani figli. Difficile metterli d’accordo, montare l’infinita biblioteca senza l’ausilio di uno straccio di disegnino. E così, alla maniera di una scala che si arrotoli verso il cielo, io continuo a lasciar fiorire le unghie dei miei piedi. Per poi ripercorrere quella scala alla rovescia, come uno scivolo che mi riprecipiti giù giù negli abissi del comico.

mercoledì 11 aprile 2012

"Ti stimo moltissmo", o sull'amore senza amore


Seguendo l'eccentrica proposta teologica di Igor Sibaldi, o meglio buttandogli inizialmente un occhio nella forma estrema della pigrizia, quella del dvd ricavato dalle sue conferenze di esegesi biblica, ho scoperto una cosa probabilmente già nota ai più, ma per me nuova ed estremamente interessante. In particolare l'analisi del passo seguente, da Giovanni 21, 15-19, che gli occhi me li ha fatti spalancare tutti e due:

Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle».

Il dialogo appena trascritto deriva da una doppia traduzione, dal latino all'italiano ma ancor prima al latino dal greco, lingua in cui sono stati scritti tutti i vangeli canonici. Diversamente da quando avviene nel nostro lessico, in greco non esisteva però un solo termine per definire l'amore, che veniva espresso in tre forme alternative: eros, philia ed agapè.


Rivedendo allora l’intero dialogo in una prospettiva linguistica, come ci invita a fare Igor Sibaldi memore dei suoi trascorsi da slavista, lo possiamo comprendere nella sua corretta intenzione. Quando Cristo, la prima volta, chiede a Pietro se lo ama, gli domanda infatti:

- Agapas me?

Che significa: mi ami tu di un amore totalmente disinteressato, intimo, fraterno? Distinto sia dal fervore sensuale, proprio dell'eros, sia dalla generica simpatia quale ritroviamo nell'amicizia virile per i greci, che ha il suo correlato nella nozione di philia. Philo è anche il prefisso da cui discendono molti termini attuali, tra cui filo-sofia, filo-logia, fil-antropia, a suggerire un sentimento di buona disposizione verso oggetti o categorie inanimate del pensiero. Ma non si può provare agapè per un oggetto o una forma astratta, già che l'amore agapico prevede la fusione, la comunanza sentimentale. Semplificando di molto, potremmo dire che agapè ha un'intonazione più "profonda" di philia.

Bene, date queste informazioni preliminari, è interessante vedere non solo
cosa Pietro replica alla precisa domanda di Cristo - Agapas me? -, ma come, con quali parole lo fa nel testo originale. In greco, e sempre per il tramite del buon Sibaldi, ciò che lui unicamente riesce a dire suona dunque così:

- Philoo se.

Pietro non risponde quindi "sì, ti amo", come vuole la nostra errata traduzione, e piuttosto qualcosa come "sì, ti amo, ma..." E cioè ti amo in modo differente da quello che mi richiedi: provando philia, non agapè.

Cristo ripete allora la domanda, per sincerarsi se c'è stato fraintendimento, e non come si è creduto per oscure ragioni anagogiche. Ma anche in questo secondo caso Pietro si limita a dichiarare la sua philia, eludendo la richiesta di agapè. Al terzo tentativo è però la domanda di Cristo a mutare, ora rivolgendosi a Pietro con le seguenti parole:

- Phileis me?

Come si può vedere, Cristo sta ora utilizzando il medesimo verbo delle precedenti risposte di Pietro, il verbo filéio. Ed è così che i due posso finalmente incontrarsi su tale piano, quello della philia, dell'amore amicale, ribadito in forma immutata dalla conclusiva risposta del discepolo:

- Philoo se.

Per tre volte, come quando ha rinnegato il suo Messia nelle scene concitate della cattura, Pietro attesta il sentimento della philia, senza mai giungere all'intima pienezza fusionale dell'agapè. Una condizione che, nella prospettiva escatologica del cristianesimo, fa dell'uomo mortale l'agnello pasquale, ossia il simbolo che nell'imitatio Christi riesce a superare la morte stessa. Pietro può dunque solo "pascere le sue pecorelle" - essere cioè la regola, la norma prescrittiva di ogni religione mondana - ma non farsi pecorella egli stesso. E ciò perché egli è sprovvisto d'agapè.

Bene, ma la domanda a questo punto diventa: perché, Guido Hauser, ci stai raccontando tutte queste belle cose, per farci vedere quando sei istruito, sapiente, ganzo? Non ci risulta che Fontana con soldino sia diventato un blog di esegesi scritturale…

Obiezione accolta. Colpito ma, forse, non affondato. Sto infatti scrivendo dello scambio tra Cristo e Pietro perché l'ho trovato di un'attualità imbarazzante. A solo titolo d'esempio, a me suggerisce un dialogo simile, addirittura quasi identico, che ricaviamo da un film emblematico della nostra contemporaneità, non a caso definito film
di culto (anche l'ambito religioso del complemento probabilmente non è casuale). Ma senza aggiungere altro, vediamo se lo riconoscete:

- Mi ami, Pina?

La Pina non risponde.

- Mi ami, Pina?

La Pina non risponde.

- Mi ami, Pina?

E la Pina, finalmente, con un filo di voce:

- Ti stimo moltissimo, Ugo.

Sì, certo, si tratta proprio della sequenza che vede protagonisti il rag. Ugo Fantozzi e sua moglie Pina, contenuta in uno o forse in tutti i film della serie Fantozzi. I due non si dichiarano infatti il loro amore, ma sempre, e con patetica ostinazione, la loro reciproca stima. Come a dire che anche in questo tempo, proprio come nella Galilea sotto Augusto, con un cuore tiepido sì può solo pascere gli agnelli, quando non essere lupi. Ciò che rimane, è la consolazione di una mesta philia.

Provando allora a ritradurre con linguaggio attuale, ma finalmente corretto, il celebre passo dall'ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni, ne uscirebbe probabilmente qualcosa del genere:

- Pietro,
insomma, me lo vuoi dire una buona volta se mi ami?

- Beh, Rabbi, amore amore proprio no... Diciamo che ti stimo, ti stimo moltissimo.

martedì 10 aprile 2012

L'a-pensiero, o su quelli che non bisogna pensare...


Mi capita, sempre più spesso, di trovare persone che mi dicono: "Tu pensi troppo". Oppure, in forma imperativa: "Devi pensare meno!" I più garbati usano una formulazione indiretta: "Il segreto, sta nel non pensare".

Anche le narrazioni in voga in questo tempo assecondano tale persuasione. La
letteratura con protagonisti bambini già imparati, ad esempio, o la manualistica con sigillo a vario titolo psicologico – in genere una forma stemperata ed edulcorata di behaviorismo, che sta alle acquisizioni più genuine della psicologia come l'orso Yoghi a un vero e feroce grizzly.

Va dove ti porta il cuore, quindi. Va dove ti conduce la sensazione, l'emozione, il bisbiglio dei sensi. In ogni caso non chiedere mai alle gambe di fornirti la mappa dei tuoi passi: solo cammina, e camminando lo scoprirai. Nel frattempo passa parola, incarna il tuo pregiudizio, non predicare agli uccelli ma diventa uccello tu stesso. Una lunga e spensierata catena umana. O meglio, un girotondo.

A parte il sottile fastidio nel ricevere un consiglio non richiesto, l'unanimismo tanto smaccato verso la "sapienza" emotiva e le virtù del non pensiero – ma sarebbe forse il caso di definirlo
a-pensiero, sorta di fresca disinvoltura che ci fa aderire al presente senza troppi scossoni –, tale diffusa convergenza d'opinione ottiene su di me l'effetto opposto: mi dà da pensare...

Penso, innanzitutto, a quale possa essere il luogo cognitivo da cui scaturisce una certezza tanto inamovibile. Dal momento che io non devo (non
dovrei) poggiare le mie convinzioni sul pensiero, anche chi formula il consiglio si suppone che non lo faccia, che non pensi a quel che mi suggerisce di fare. Non è dunque con il pensiero che mi si dice di non pensare, ma, ne ricavo, è ugualmente per le vie semplificate dell'a-pensiero.

Detto in altre parole, il consiglio di non pensare potrebbe essere tradotto a questo modo: non pensare anche tu. Già che pensando, lo vedete, sorgono dubbi e tortuose interpretazioni, mentre a-pensando si è certi della bontà di quel che si dice. E ciò perché lo si sente, lo si prova.

Allargando, come in un dolly cinematografico, dal dettaglio al totale, anche da un evento così minuto possiamo ricavare alcune significative indicazioni. Ad esempio sul modo in cui l'Occidente si è accostato alla tradizione orientale, e viceversa. Se in Oriente ritroviamo i monaci tibetani che studiano la logica aristotelica, si cimentano con le scienze teoriche, armeggiano con la tecnologia applicata, come lo stesso Dalai Lama che a cinque anni già sapeva smontare e rimontare un orologio, cosa succede qui da noi?

Beh, a me sembra che l'incontro tra le diverse culture si stia riducendo in Occidente a una forma di reciproca elisione, che toglie qualcosa a entrambe senza portare a compimento la parzialità in nuce dentro ciascuna di esse. Quel che noi abbiamo definito, provvisoriamente, a-pensiero, non corrisponde infatti alla ricerca di uno stato mentale di pienezza paradossale, dove Tutto e Nulla si compendiano nella pratica meditativa, ma a un tracciato molto più simile a una scorciatoia neghittosa.

Ciò che in Oriente è un gesto eminentemente ontologico – la ricerca dell'essenza, dell’assoluto dentro la precipitosa transitorietà del momento – viene così a degradarsi quale distrazione da ogni sforzo del concetto. Il che, ovviamente, non conduce al nirvana, ma al trionfo del più vieto luogo comune, prescritto con l'inflessibile sentenziosità di un occhiuto medico dell'Ottocento.

Per la natura intransitiva del messaggio, non è possibile ribattere razionalmente a tale assiomatico invito: non pensare, lasciati andare, galleggia anche tu sulla superficie morbida del presente, come il pedalò sulla cresta del mare azzurro e calmo. Esiste però uno stratagemma per disarmare il nostro interlocutore dalle sue contagiose ovvietà. Basterebbe replicare, ma dopo un lungo respiro, le pupille affilate pronte a infilzare ogni vacuo fumettone, come Robert De Niro quando parla con lo specchio in Taxi Driver: "You talkin' to me? You talkin' to me... E poi: bang bang!

martedì 3 aprile 2012

Le regole del gioco ovvero il gioco delle regole


Nel precedente intervento sul blog ho pubblicato una breve storiella, in cui si parlava di un prato, due porte simili a quelle del gioco del calcio, e un uomo misterioso che arriva da non si sa dove, non si sa quando, consegnando un pallone alle ventidue persone che già si trovano lì, anch’esse misteriosamente. Quindi l’uomo si ritira, ponendo come unica condizione l’utilizzo di ciò che offre, ma nessuna norma esplicita su cosa farne. Ciò che richiede in cambio è unicamente l'impegno a stupirlo e commuoverlo. Chi lo saprà fare, avrà in dono il pallone.

In effetti, più che di un racconto e indipendentemente dal merito – che non sta certo a me giudicare – si trattava forse di un breve apologo, nelle mie intenzioni collegato al testo che a sua volta lo precedente. Prendendo spunto da una buffa canzoncina del grande Henri Salvador, accennavo lì alle polemiche suscitate dalla riforma dell’articolo 18, che oltre a richiamare giustamente l'attenzione sull'incalzare del problema della precarietà, non solo economica ma esistenziale, a mio avviso lasciano trapelare anche una sorta di mitologia contemporanea del lavoro.

Ora io non voglio sminuire, o peggio negare, la centralità drammatica che possiede il lavoro in questo tempo. Io stesso, sono disoccupato. Ma se ci pensiamo bene, ciò che è veramente urgente sono le risorse – per mangiare, bere, proteggersi dal freddo e dalle aggressioni degli animali più feroci; quindi per cazzeggiare e svagarsi un po’ – non certo il lavoro. Ci sembra dunque naturale, ovvio e quindi indispensabile dover lavorare, per soddisfare tutte queste esigenze. E lavorare sempre di più.

Bene, io mi limitavo a proporre l’idea che le cose, almeno nei termini puramente logici, da cui discende un nesso quantomeno potenziale con la realtà, dunque politico, non stiano esattamente così. Ossia che non esista un vincolo necessario tra risorse e lavoro.

Pensiamo ad esempio al sistema economico della città di Sparta. In quell’antica città greca nel cuore del Peloponneso non esisteva – per scelta, attenzione, per scelta e non per un ritardo nello sviluppo storico! – non esisteva il denaro, e così la maggior parte degli spartiati si dedicavano ad attività non produttive; l’addestramento militare, in particolar modo.

Certo, la prima obiezione a questo riferimento è che Sparta poteva permettersi una tale economia dell’improduttività, già che a compenso del loro diletto marziale esistevano gli iloti, una popolazione asservita che lavorava la terra per conto di una minoranza di cittadini liberi. Un’obiezione che non solo è fondata moralmente – questo tipo di struttura sociale ha un nome ben preciso: si chiama sfruttamento –, ma anche, e per paradosso, perfetta per arrivare al punto che io intendevo dimostrare.

Il grado di evoluzione scientifico-meccanica della civiltà odierna – non a caso identificata dai filosofi proprio come evo tecnologico – ha raggiunto esiti di tale sofisticazione da configurarsi come nuova e potenziale casta produttiva: far lavorare le macchine al posto dell’uomo, detto in poche e semplici parole. Le macchine come gli iloti. Questa è l’idea.

Naturalmente io non mi nascondevo, e non mi nascondo, la natura utopica di una proposta tanto estrema. Ma non perché sia impraticabile nei fatti, bensì per il carattere illusoriamente naturale delle forze in campo, che ci fa percepire i limiti autoimposti dalle consuetudini culturali come la struttura stessa del sistema, e non invece come la sua congiuntura storica – e dunque modificabile – dentro un diverso sistema.

Provando a riformulare l'idea con termini più correnti, se non abusati, le attuali regole economiche non sono l’hardware delle nostre vite, ma solamente uno dei possibili software, a dire il vero piuttosto collaudato, che fa da velo a interessi particolari e minoritari. Ci sono insomma sempre degli spartiati – che sfruttano – e degli iloti che vengono sfruttati.

Per distogliere lo sfruttamento dall’umano e rivolgerlo all’inorganico, è dunque necessario ripensare l’intero processo economico, e farlo in una direzione che effettivamente possiede diversi punti in comune con la teoria marxista. Infatti per ridistribuire il prodotto della meccanizzazione del lavoro è necessario che i mezzi di produzione e di scambio siano a disposizione della collettività, come vuole appunto la dottrina economica che da Karl Marx discende. Quindi anche le risorse produttive devono essere appannaggio della polis, e non stornate nell'imbuto che conduce allo stomaco di pochi fortunati.

Ma al di là, o forse al di qua di una proposta politica circostanziata – che non ho lo spazio, il tempo e probabilmente neppure gli strumenti per proporre – quel che mi interessa rimarcare è l’intima natura politica di tutto ciò, anche se noi ci siamo abituati a pensarlo (complice la stampa, i mezzi di informazione) come indiscutibile e scontato; o se preferite, con maggior zelo filologico, come impolitico. E in questa categoria vengono ormai ricomprese anche l'attività parlamentare e l'amministrazione della cosa pubblica, che vengono rubricate dentro la dimensione del fare, del "fare le cose per bene", come si usa sentenziare al bar, e in ultima analisi del dominio della tecnica.

Platone, nel Politico, perimetra molto bene il campo concettuale del discorso, definendo l’azione politica quale “tecnica régia” (basilikè téchne), che sovraintende e conduce tutte le altre tecniche particolari, singolarmente utili alla trasformazione dell’intenzione politica in prassi operativa. Beh, come credo sia a tutti evidente, i termini del rapporto tra politica e tecnica appaiono ora invertiti. E’ la politica, insomma, a dover sottostare agli imperativi tecnici, che direzionano strategicamente ogni aspetto della vita associata.

Questo forzato contenimento della libera sovranità politica imposto dalle catene procedurali della tecnica, è però un tema svincolato dall'ipoteca culturale della Sinistra, e anzi sviluppato proprio dalla Destra culturale novecentesca (Heidegger, Pound, Schmitt, Benn, Junger...). Tema che ritroviamo anche nel raccontino a cui accennavo. Dove non è nelle cose, o nelle infinite possibilità del pensiero combinatorio, il limite che gli uomini si sforzano di rispettare – non toccare il pallone con le mani, nello specifico. Infatti chi l’ha detto, che non si può: sta forse in qualche legge naturale, biologica, fisica o strutturale...?

L’uomo del pallone, dopo averlo consegnato ai ventidue, ha solamente aggiunto: “Ora provate a stupirmi, e a commuovermi.”

Il limite che gli altri si sono imposti – rispettare le regole del gioco del calcio, a cui si mostrano assuefatti – sta dunque nella testa degli uomini, e non in supposti vincoli normativi o ambientali. Un limite probabilmente indotto, oltre che dai già accennati interessi particolari, anche da qualcosa come una tautologia tecnica, ossia da una sorta di pregiudizio operativo che replichi all’infinito se stesso: le cose fino ad ora sono state fatte a questo modo, e dunque questo è il modo in cui vanno eternamente fatte le cose.

Palle.

Perseverando in uno schema mentale circolare, noi restiamo avvinti da suggestioni irrazionali, bloccati da un sortilegio magico, una bolla cognitiva, che fino a quando non viene fatta scoppiare continua a impedire ogni reale possibilità di progresso, non necessariamente coincidente con lo sviluppo tecnico e produttivo, come aveva intuito Pasolini già quasi mezzo secolo fa. Per tale ragione un progresso pienamente umano potrà avvenire solo quando la politica – tecnica régia – avrà nuovamente asservito le tecniche particolari, proprio come gli spartiati con gli iloti.

Al momento, non ci resta dunque che verificare come l’attuale governo rappresenti la fotografia più esatta di tale incantamento magico su ampia scala: il sessanta per cento degli italiani pensano che alcune decisioni dolorose debbano essere prese perché così vogliono le regole dell’economia, i trattati di Maastricht, i codicilli di Schengen. Ma chi ha deciso quelle regole, quale tecnica régia sovraintende alla tecnica economica (e quindi particolare) di Mario Monti?

La politica si dovrebbe occupare delle ragioni per fare le cose, ricordiamolo ancora, prima che delle cose stesse. Ragioni che si possono riassumere in antiche ma per nulla deteriorate categorie come la felicità, il benessere, la giustizia, il bene, l’interesse personale e collettivo. Maastricht non mi dice nulla in merito alla felicità o al dolore o alla direzione della mia vita! E ciò perché i trattati di Maastricht appartengono all'ambito della tecnica, non a quello della politica, che può e deve sempre rivedere le proprie decisioni, negoziare i suoi valori.

Ci vorrebbe allora qualcuno – un uomo autenticamente politico, un gremlin, un marziano con le antennine verdi, o ancora meglio tutti quanti noi – che a un tratto e per sovrano slancio della volontà prenda tutte le nostre belle regole economico-finanziarie, e le appallottoli in una sfera. Quindi la faccia girare sulla punta del proprio naso, mostrando che ci sono altri modi di giocare con una palla, e che quelli fino ad ora replicati sono solamente una minuscola provincia nel regno del possibile.

Perché non c’è labirinto che non contempli una via d’uscita, e non c’è gioco senza soluzione. Basta cambiare – opplà – le regole del gioco stesso, ed ecco una partita di calcio trasformarsi in una di basket, di rugby, di pallavolo… Non abbiamo che da scegliere, e da reclamare un po' di buona vita anche per noi, non un semplice lavoro!

domenica 1 aprile 2012

L’uomo che faceva roteare il pallone sulla punta del naso


Mettiamo un prato, un grande prato con l’erba appena falciata, due poligoni cavi formati da assi bianche e levigate, due rettangoli per la precisione, con una rete floscia agganciata alle estremità.

Mettiamo anche ventidue persone nel prato, e una ventitreesima che arrivi con un pallone di pelle sotto al braccio, lo deponga in una posizione centrale ed equidistante dai due rettangoli, e dica quasi sottovoce: “Ecco, fate voi, fate come vi pare. Chi saprà stupirmi e commuovermi avrà in dono il mio pallone”.

I ventidue si dividerebbero allora in due fazioni contrapposte e bilanciate - undici per parte -, iniziando a calciare la palla nell’intento di infilarla nella rete appesa ai due poligoni regolari, ogni fazione all'interno di un poligono differente. Ma cercherebbero, naturalmente, anche la finta spiazzante, il colpo fino di tacco, il torello malizioso e la sforbiciata al volo. Cercherebbero di stupire e commuovere l’uomo che ha portato loro il pallone.

Ora mettiamo che il gioco prosegua per una, due, tre, anche sei o sette ore consecutive, senza che sul volto dell’uomo del pallone, assiepato a gambe incrociate accanto a un ciuffetto giallo di tarassaco, compaia mai un sussulto di stupore, oppure un segno di commozione.

E così tutto continuerebbe, continuerebbe allo sfinimento, finché uno – e uno soltanto – dei ventidue afferrerebbe il pallone con le mani, lo stringerebbe forte a sé, ansimando, barattando ossigeno contro biossido di carbonio, prima di far roteare la sfera con lieve perizia sulla punta del proprio naso.

“Ma cosa fai, sei matto, non si può!” griderebbero gli altri a turno. Convenendo per una punizione esemplare, da stabilire da parte dell’uomo del pallone. Il quale ritornerebbe con passo stanco e vagamente claudicante, e dopo aver fissato uno per uno gli uomini sfiancati e rabbiosi sul grande prato verde - "Hai visto cosa ha fatto, è inaudito: ammoniscilo, caccialo fuori!" - probabilmente direbbe qualcosa del genere:

“Perché, vi avevo per caso detto io che non si può afferrare il pallone con le mani, che bisogna prenderlo a calci ed evitare di farlo roteare sulla punta del naso? Siete voi, probabilmente per abitudine, che lo avete creduto. Ma in tal modo avete solo replicato le vostre regole, non le mie possibilità: così non riuscirete mai a stupirmi, tanto meno a commuovermi”.

Quindi, dopo essersi asciugato una minuscola lacrima che pende dall’occhio destro, forse un’allergia ai pollini di stagione, se ne ritornerebbe da dove è venuto. Ma prima si fermerebbe dall’uomo che ancora sta facendo roteare il pallone sulla punta del naso, dicendogli solamente: “E’ tuo”.