martedì 28 febbraio 2012

Ma che te lo dico a fare?, o sulla strana epidemia di puntini


Ma perché, negli ultimi tempi, le persone hanno iniziato a scrivere un numero crescente di puntini?

I puntini di sospensione sono tre: non due, non quattro. Tre. Qual è dunque l'intima intenzione comunicativa di chi ti invia una mail con quattro, cinque, a volte anche un numero superiore di puntini consecutivi?

Lo stesso nei forum, nella comunicazione sulle bacheche di facebook o leggendo i profili personali sul web: centinaia, migliaia di puntini che dilagano come zombie in un film di Romero, pronti a riconquistare il mondo.

Il dubbio è infatti proprio questo: che l'afasia, l'impossibilità a dire testimoniata graficamente dai puntini di sospensione, rivendichi ora una sua orgogliosa espressione, quasi un'autorità semantica.

Io non so le cose, ok, ma punteggiando il mio testo ti urlo in faccia il mio non-sapere. Quindi, socraticamente, te lo mostro con il ribaldo compiacimento di chi se ne fotte delle regole di scrittura, esibendo quanto invece io sia originale, sintatticamente disinvolto.

E dunque, osservata da tale prospettiva - antropologica, potremmo dire - quella dei puntini si configura come la più sintetica tra le rivolte formali: non contestando la vecchia forma con una nuova forma (troppo facile e tradizionale...), ma con la totale assenza di forma, misura, galateo nell'enunciazione.

I nuovi punteggiatori, con il loro semplice e ipertrofico gesto, sembrano così rivendicare: noi non sappiamo un cazzo, ma non perché siamo pigri, indolenti, ma perché è il vostro sapere, con le sue decrepite architetture grammaticali e le morfologie grafiche prestabilite, a essere una camicia troppo stretta per la nostra voce potente.

Da questo punto di vista, tocca però dargli ragione: il sapere, accumulando, capitalizzando l'esperienza in riconoscibili categorie, è sempre una limitazione della libertà. Che è invece il valore supremo di chi sia convinto di poter reinventare il mondo, ogni mattina un nuovo mondo pronto a essere cavalcato senza sella e finimenti, con il solo estro dell'alfabeto.

Non una contesa sul merito delle cose, dunque, e che per via dello stesso merito potrebbe essere risolta attraverso il confronto, ma una vera e propria guerra sul valore insindacabile del sentimento: libertà espressiva contro coerenza logica, è questa la partita. Strada ferrata che sfregia il vivo smeraldo in cui sciama il bisonte.

Ed così che in questa sfida ritroviamo qualcosa di antico, forse persino di eterno. La gioventù che intende fare piazza pulita di ogni carico che le vecchie generazioni provano a posare sopra alle sue spalle acerbe, la gioventù che invece vuole correre libera nel vento, nel desiderio puro di coincidere con l'intero campo manifesto, ma avvolto dalla filigrana fosforescente e occulta del sogno.

Per poi raccontarti, con il fiato ancora ansante, quella corsa come se fosse la prima corsa, il primo uomo che si infila un paio di Nike da 145 euro, prese però da Giacomelli Sport col 20% di sconto per i pensionati. Per i pensionati?!

Eh già, perché si tratta di una gioventù che non ha più nulla di cronologico, quella che si accalca nelle nuove palestre linguistiche: è questo il dato davvero inquietante. Sono infatti a migliaia gli ultra cinquantenni che si autopercepiscono come giovani, e giovanilmente scrivono, distribuiscono puntini col gesto ampio del seminatore, consegnando alla zolla smossa del web i loro proclami anarchici e desideranti.

Allo smagato contadino della lingua, attraverso un semplice colpo d'occhio sintattico, rimane dunque solo la difesa di un'infallibile equazione: non più l'età anagrafica ma il numero di puntini consecutivi del vostro interlocutore, sarà l'elemento inversamente proporzionale al grado di considerazione e rispetto che potrà avere delle vostre argomentazioni, considerandovi nella migliore delle ipotesi vecchio.

Il che, ovviamente, contiene anche un utile corollario: ma io che ci parlo a fare, con questi avvizziti giovincelli...?

lunedì 27 febbraio 2012

Il gran rifiuto


Ne ho già parlato su questo blog. Ma probabilmente con troppo garbo, cortesia, compostezza formale. Forse anche con troppa "serietà", e non con quell'impeto spassionato che merita ogni conflitto in cui ne vada della tua vita - vita non necessariamente biologica e innervata, ma comunque vita, identità piena con sé.

Mi riferisco al sentimento di inadeguatezza e di vergogna che cercano di buttarti addosso, umiliandoti per l'impegno in quel che fai. E non sto parlando di scrittura, o della minima porzione della mia esistenza che si concentra in queste pagine: è la semplice e focalizzata attenzione a fare bene, a fare il proprio meglio con trasporto, che viene costantemente mortificata e irrisa.

Essere bravi: una colpa, se non giochi a pallone o sai aspirare due Marlboro con il naso - una per narice, come i due ladroni che penzolano dalla croce -, per poi espellere il fumo dal buco del culo.

L'albatros di Baudelaire si è così trasformato nel cagnetto che viene preso a calci per ogni via, e in particolare nello snodarsi caotico dei sentieri telematici, tra i tornanti rabbiosi dei forum, la disincanta ironia delle chat. Un universo cognitivo e linguistico dove vigono le leggi severe del mercato linguistico: ottenere tanto con poco, ottenere una complicità al ribasso nell'interlocutore. Una sorta di specularità umana deformata dalla pigrizia, che conduce a una medietà espressiva desolante, contenuta quale regola d'uso di ogni relazione sociale al tempo di facebook.

Tutto ciò ha un nome ben preciso: normalizzazione.

Che consiste, per paradosso, in una normatività della sregolatezza, della libertà esteriore e della svacco. Ossia della coincidenza del pensiero con la norma stessa, in una circolarità senza sbocco che porta la recluta a scattare sull'attenti alla vista dell'ombra - non della presenza, attenzione! - del superiore. Morale: lo studio, la conoscenza, la parola meditata e l'arte per l'arte, intesa come inchino deferente alla perizia artigianale della forma, che è cosa ben diversa dal prostrarsi all'idea che informa il giudizio, sono diventati termini di insubordinazione, da sanzionare con la moneta di un violento sarcasmo.

A questo clima non rimane dunque che opporre il nostro gran rifiuto. Nei modi manifesti e rabbiosi di Spartaco, per chi possiede un indole estroversa e fiera. Ma anche in quelli, più sommessi ma non meno efficaci, di un mite scrivano di nome Bartleby. Che tutto ciò seppe sintetizzarlo in tre semplici parole: "Preferirei di no".

mercoledì 22 febbraio 2012

Lupo


In effetti, era diverse notti che non dormivo domandandomi incessantemente quale fosse il nome del nuovo cane della Coppia inglese per antonomasia, o più semplicemente degli "sposini", come li chiama con vezzosa familiarità la pagina web di un autorevole quotidiano italiano, ora si dice autorevole di qualsiasi cosa, tocca adattarsi anche alla mutevole egemonia degli aggettivi. In ogni caso, per fortuna esistono ancora questi giornali autorevoli, oltre che solleciti, sensibili e attenti ai problemi reali delle persone, nel senso di principi e re, arciduchi e camerlenghi grandi e piccini. Ed è così che, in continuità con una nobile tradizione prerisorgimentale e dopo lunghe e documentate ricerche - il cosiddetto "giornalismo d'inchiesta" -, repubblica.it riesce a svelare finalmente l'arcano, riconsegnandomi alle accoglienti braccia di Morfeo.
Grazie dunque a la Repubblica, che di incongruo a questo punto ha solo il nome, grazie al giornale fondato da Eugenio Scalfari e alle sue insinuanti propaggini verbali (tra cui D di Repubblica, a cui un web link rimanda per approfondimenti), grazie ancora una volta di cuore per avere informato il Paese, in preda come il sottoscritto alle urticanti punture della curiosità, riguardo a nome e razza della simpatica bestiola: si tratta di un cocker spaniel nero dall'aria affabilmente birichina, che di nome fa Lupo! Sì, proprio così, Lupo, all'italiana, e non invece la traduzione anglosassone Wolf, come sarebbe stato invece lecito aspettare.
Ma aspettare da parte di chi?
Dell'autorevole quotidiano, dai, è evidente! Che
con encomiabile zelo documentale ci ricorda anche di questa imperdibile notizia.

(Ps - Per chi volesse constatare con mano l'ennesimo crimine giornalistico della testata, può cliccare qui. Ma poi non dite che non vi avevo avvertiti...)

mercoledì 15 febbraio 2012

Daniele Ventre, o sulla fatica e la forma


Ho appena terminato di leggere un bell'intervento scritto da Daniele Ventre e pubblicato su Nazione indiana. L'intervento, che ha per tema l'interpretazione mitologica, si trova qui. Purtroppo io non sono riuscito a inserire un mio commento, come ho cercato di fare stimolato dall'argomentare dell'autore, più che dalle argomentazioni stesse. Confidando nel valore generale della discussione - ossia in un esorbitare dei significati dal loro contesto d'origine -, riporto di seguito il mio pensiero. Lo riporto così come avrei voluto fare nel sito di Nazione indiana.


Arrivo, da buon ultimo, a questa interessantissima discussione, che per ovvie ragioni temporali temo però già conclusa ("La festa appena cominciata è già finita..."). Aggiungo dunque solo un pensiero, di cui non mi pare di trovar traccia nelle parole che mi precedono – a parte, forse, in una nota di Valter Binaghi, che usa però l'argomento in chiave vagamente risentita.

Mi riferisco allo stile con cui Daniele Ventre ha scritto il suo bellissimo testo. Uno stile che non è solamente "involuto", come adombra appunto Binaghi con fondate ragioni, ma addirittura tortuoso, accidentato, difficilissimo. In una parola: "pazzesco".

Inoltre, vengono date per scontate, e cioè acquisite una volta per tutte, una serie di nozioni preliminari, tra cui la conoscenza della lingua tedesca.

Sono così andato su google e ho provato a ricercare la percentuale di italiani che frequentano i rintocchi verbali di Goethe, di Beethoven, o se preferite di Angela Merkel, scoprendo che non supera il 7% della popolazione (io, ovviamente, faccio parte del restante 93). A tale dato, va aggiunto che di questo 7% una considerevole parte è concentrata nella regione speciale dell'Alto Adige, dove il tedesco è correntemente utilizzato dal 65% dei residenti.

Una domanda, ironica, potrebbe dunque incalzare il lettore sprovveduto, quale io certamente sono: Nazione indiana, dico, nel lungo tempo in cui non vi ho fatto scalo, che si sia trasformata in un'isola linguistica per la minoranza germanofona del nostro Paese...?

Ma sarebbe una domanda capziosa. Come la considerazione che un numero ancora più basso di italiani conosce Leo Frobenius. Sarebbero cioè degli argomenti desunti da un elemento implicito alla comunicazione contemporanea, che potremmo riassumere, parafrasando Contini, con una sorta di funzione linguistica Holden, o FH (nel senso della scuola di scrittura).

L'intervento di Daniele Ventre, se fosse stato il componimento per il test di ammissione alla famosa scuola torinese, avrebbe infatti ottenuto un risultato praticamente certo: non solo Ventre non sarebbe stato ammesso ai corsi, ma, probabilmente, il suo scritto sarebbe stato assunto come modello negativo, a cui conformarsi per opposizione.

E non è troppo difficile immaginarsi il leader carismatico dell'istituto. Immaginarselo mentre si rimbocca le maniche bianche della camicia, sbuffa via un ciuffo di capelli dagli occhi guizzanti lampi di acume, e poi aggiunge, flettendosi morbidamente sugli stivali: "Ragazzi, oh, così non scrive! Capito, che se no mi fate sbiellare."

La diversa domanda che sto cercando di farmi, è allora quella sul motivo per cui quasi tutti, me compreso, si siano messi a scrivere proprio come alla scuola Holden, camicia bianca e stivali da John Wayne compresi nel prezzo. E cioè in modo scorrevole, soft, light. O provando ancora una volta a riassumere: in modo facile.

Forse perché facile è bello, facile è educato, garbato, carino, evitando al lettore lo strazio di un periodo del genere:

“…la vecchia connessione freudiana e poi junghiana fra mito, psicologia del profondo o archetipo trova allora una sua naturale collocazione, essendo la stessa struttura simmetrica delle metafore di schema non idiosincratiche di matrice biologica (umido-vita; secco-morte; caldo-protezione; freddo-ostilità etc.), a fornire l’anello di congiunzione fra schemi motivazionali, pulsionali e comportamentali tipici (archetipi psichici) e quegli schemi narrativo-metaforici che si coagulano attorno a dèi ed eroi (archetipi mitici)".

Può essere, sì, che nella semplicità sia contenuto un elemento di cortesia (di galateo), e nella complessità il carico "offensivo" di uno sforzo. Ma il sospetto è che senza tale sforzo – conoscere, afferrare saldamente, fare proprio – sempre più finiremo col parlare come in una canzone di Vasco Rossi.

I cui testi sono perfetti, attenzione, per dire quelle cose lì, che dice Vasco Rossi. Ma per esprimente gli argomenti che con lambiccata pedagogia prova a dispiegare Daniele Ventre, la forma canzone non è probabilmente il modello più adatto. E nemmeno le formule ammiccanti e paratattiche di una scuola di scrittura con tutte le carte in regole, compreso quelle che stanno nascoste nel polsino.

Concludo così ringraziando l'autore del testo, che ha fatto sudare i miei neuroni nel tentativo di tenere la ruota alla pedalata lunga del suo periodare; uno stile che non mi piaceva prima e non piace ora. E' però grazie anche a quell'ottovolante sintattico, dove ai vertici dotti seguono le vertiginose discese degli incassamenti logici, le acquisizioni sillogistiche, che io mi confronto con altri modi di scrivere, tesi a conferire una forma stabile e certa alla svagata mobilità del pensiero.

E senza quella saldezza frutto della fatica, le parole, i concetti, le nozioni intraviste nella penombra di un'intuizione, il più delle volte gocciolano via, così come una pioggerella estiva. Mentre la conoscenza vera somiglia all'albero della cuccagna: devi arrampicarti fino in cima, per guadagnarti le lenticchie e lo zampone.

martedì 7 febbraio 2012

Pensare l'impensabile - riprendono i seminari


Riprendono, domenica 12 febbraio a Milano, zona Loreto, i seminari sulle principali tradizioni spirituali. Inaugurati l'anno scorso dall'associazione Fontana con soldino, gli incontri, anche in questo secondo ciclo, verranno tenuti dal filosofo delle religioni Gianfranco Bertagni. Il primo appuntamento della nuova serie sarà concentrato sullo studio della tradizione cabalistica, partendo dalla sua genesi storica - oltre che mitica - fino alle implicazioni più recenti e diffuse. Nonostante una visione "capiente" della materia, per così dire, la discussione sarà sempre ricondotta ad uno sguardo critico e documentato, per quanto non necessariamente demistificante, o peggio ironico. Chi fosse interessato, può trovare informazioni più dettagliate al sito del relatore. Che è buona cosa contattare via mail, oltre che per dubbi e chiarimenti, per una prenotazione che è gradita, per quanto non vincolante. Oppure ci si può rivolgere direttamente alla bottega Colpo d'occhio, a cui quest'anno è passato il testimone organizzativo. Personalmente, sono felice per l'iniziativa, e auguro loro la miglior fortuna!

Colpo d'occhio: http://www.colpo-docchio.com
info@colpo-docchio.com
tel: +39 02-26147855

Gianfranco Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it
gianfrancobertagni@yahoo.it

sabato 4 febbraio 2012

Letargo


Questo blog, come altre volte è successo, ha perso slancio e motivazione. Il che ovviamente coincide con la figura retorica della prosopopea, già che sono io, guido hauser, il soggetto implicito della frase. Se ben ricordo, era Cesare Garboli, in un breve e al solito acutissimo saggio di alcuni anni fa, a riconoscere come ornamentali e fasulle tutte quelle retoriche che tendono a far coincidere l'espressione letteraria (o se preferite la "creatività" in generale; termine assai di moda ma a cui io preferisco il più modesto, oltre che filologicamente pertinente, inventività) a far coincidere l'arte con la sofferenza dell'artista. Come se lo scrittore fosse l'acino d'uva che la vita deve pigiare con i talloni, per distillare il prelibato vino con cui ristorare il banchetto. E dunque bisogna saltargli sopra, maltrattarlo, pestarlo pestarlo e pestarlo ancora, fino a che dal supplizio non sgorghi anche una sola ma luminosissima lacrima, che poi chiamiamo opera. No, tutte balle sosteneva con esempi convincenti Cesare Garboli. E così anche Giacomo Leopardi, proseguiva il grande critico scomparso, Leopardi che è ricordato come il campione della sofferenza talentuosa, del dolore fecondo, negli ultimi e più prolifici anni della sua vita ha attraversato un momento di vezzosa serenità (si coricava portandosi dei pasticcini dentro al letto, confida l'amico di sempre Ranieri), se non proprio di gioia. Ed è da questi seppur minuscoli raggi tra le nuvole basse dei giorni, che l'arte, ma in generale ogni esercizio umano della libertà, trae il proprio impulso a proseguire. Mentre il dolore vero, la depressione cupa, sono forze che non lasciano scampo. Annichilendo non solo lo spirito ma anche le sue svariate concrezioni, che l'artista dissemina per il mondo quasi fossero le erme di un'antica polis, a ricordargli ad ogni crocicchio la felice euforia di un momento di intimità con le muse, e alla città quel che avevano da suggerire le stesse muse, non certo l'artista che è solamente il loro umile stenografo. Ecco, tale meccanismo, nella mia esistenza, si è nuovamente e forse per sempre inceppato: felicità espressiva, piacere alfabetico e sintattico, allegrezza verbale. Oltre che, o forse soprattutto, fiducia nella potenza transitiva e consolante delle parole, di un ordine possibile da spartire con la comunità di cui faccio parte; ammesso che ancora esista qualcosa che esorbiti la finestrella di un monitor, e gli abissi dell'ombelico. Ma avendo già sperimentato i misteriosi cicli dell'umore, preferisco evitare, come sarei in questo momento tentato, di sigillare la provvisoria avventura del blog che state leggendo con il più irrevocabile dei congedi. Fine. Chiamiamolo dunque letargo: nel dubbio che, prima o poi, la vampa gialla del bucaneve ritorni a fare il solletico all'inverno...