lunedì 10 ottobre 2011

Latte e miele e burro e pane e marmellata, o sulla gnosi alimentare dell'Occidente

Primi giorni di scuola della prima elementare. Dalle pagine iniziali del libro di lettura, la maestra commenta una sequenza disegnata. Il protagonista è un bambino come noi - mettiamo si chiamasse Pierino - che si alza pigramente dal letto al suono di una grossa sveglia tonda.

Drin drin, e tutti quanti avvertiamo il trillo nelle orecchie.

Pierino raggiunge quindi il bagno, si lava la faccia nel lavello - il fresco dell'acqua fin dentro alle narici, anche quello sentiamo con un fremito nella schiena - e raggiunge la tavola apparecchiata dalla mamma. Sopra una tovaglia a scacchi bianca e rossa è pronta la sua colazione.

Latte e miele e burro e pane e marmellata.

E noi sentiamo il latte, il gusto morbido e tondo del latte che invade il palato, tiepido e avvolgente. Ma subito è trafitto da una dolce stilettata di miele, lenita nel burro, medicata col pane, glorificata dalla marmellata. Sentiamo tutto, noi.

E lo sentiamo anche adesso e lo risentiremo all'infinito.

Marcel Proust ha reso celebre una madeleine per averne puntigliosamente narrato la sensazione fisica del gusto, che ha il potere di riaccordarsi con una medesima sensazione del passato, creando un cortocircuito cronologico. Ma Proust, questa è la cosa che io trovo più interessante, non stava scrivendo del suo effettivo passato, ma di quello del personaggio letterario che agisce nel romanzo come suo probabile alter ego.

E così nemmeno io, a distanza di quasi quarant'anni, ricordo il gusto di una mia remota colazione, ma di quella di Pierino a base di latte e miele e burro e pane e marmellata.

Ora si parla tanto di religioni orientali, di Buddismo in particolare, in quella sua evoluzione cino-nipponica chiamata Zen. Ma di che cosa esattamente parla lo Zen, o meglio cosa insegna tacendo?

Detta sommariamente, cioè semplificando forse più del lecito, lo Zen allena ad essere vigili e a concentrare l'attenzione nel presente vissuto, da cui ricavare un'esperienza che tenda per paradosso alla totalità. Ma anche l'Occidente ha saputo concepire una via spirituale totalizzante, a ben pensarci.

Questa via spirituale si chiama letteratura.

La letteratura è infatti un artificio mnemonico potentissimo per "ricordarsi" della propria vita. Tale reminiscenza avviene però attraverso esperienze che non facciamo realmente, e in cui solo ci identifichiamo. Io sono quel che sono - e dunque è di me che sto ricordando - anche grazie a Pierino, e alla descrizione della sua colazione fatta dal mio libro di lettura. Che, ancora, morbida, dolcissima e struggente, dilegua nella mia bocca come fosse qui.

E sì che io non ho mai addentato quella colazione. Così come non ho mail navigato i mari caraibici insieme al Corsaro Nero, spartito il tesoro con i briganti, le banane con Cita e Tarzan, o sfregato la lampada magica di Aladino, che pure ha continuato ad eruttare i suoi fantasmi. Allo stesso modo, più tardi e per altre mediazioni visive, non ho cavalcato sulla groppa di Furia cavallo del West, non mi sono aggrappato all'ombrello di Mary Poppins, carezzato il pelo ispido di Rin Tin Tin o quello lungo e morbido di Lassie.

Eppure io sono tutto questo. Eppure l'Occidente è tutto questo: un enorme accumulo di esperienze non vissute, di esperienze in conto terzi.

Al punto che, da una prospettiva teologica magari un poco eccentrica, questo carattere di irrealtà esperita che ha nella tarda modernità il suo trionfo, a me ricorda il compimento mistico prefigurato da quella corrente spirituale antica chiamata gnosticismo. Anche gli gnostici, infatti, guardavano al mondo reale con diffidenza e sospetto. Confidando nel puro spirito che si oppone e infine emancipa dalla materia, di cui però conserva una vaga reminiscenza al gusto di latte e miele e burro e pane e marmellata.

giovedì 6 ottobre 2011

Gli zoccoli della Konarmija, una cavalcata nella steppa del presente


Quando, durante una conferenza, oppure a teatro, a un concerto di musica classica e comunque in genere in un momento di particolare rarefazione emotiva, quando, ecco, un bambino piccolo piccolo inizia a piangere o a fare strani versetti con la sua vocina, poi si distacca dall'abbraccio tiepido della madre - è una giovane e bella donna con i capelli ricci chiusi in un arruffato chignon, gli occhiali da vista dalla montatura spessa - e inizia a caracollare tra le file serrate di poltrone come un gattino tra le zampe dei cavalli dell'armata cosacca della Konarmija, mentre il pubblico seduto compostamente in sala finge unanimente di non sentire, e lo stesso il conferenziere, gli attori, i musicisti, nessuno sembra accorgersi di quella minuscola presenza che invece reclama una piena e totale flagranza, così quanto più quelli lo ignorano quanto più l'altro strilla, afferra un attempato commercialista per il lembo della giacca e lo strattona, ma lui niente, solo un commosso sorrisino all'indirizzo dei genitori - anche il padre porta occhiali da vista, ma leggeri e dalla lente fotocromatica, con il cordino che ondeggia sopra al coccodrillo dalla fauci spalancate della Lacoste - i quali genitori ricambiano compiaciuti e garbati, quasi che l'incursione fragorosa della propria creatura si appuntasse scintillante sul bavero del giubbino di jeans alla maniera di una medaglia al valor militare, meglio ancora un titolo onorifico per qualche gesto di estrema utilità sociale, del genere aiuta una vecchietta ad attraversare la strada, o infila la cacchina del cane dentro un sacchetto marrone per poi trasportala con il naso arricciato nell'apposito contenitore, cose così, che fanno sentire le persone un Popolo, un Paese civile fondato su valori quali la tolleranza, l'amore e il rispetto per i cuccioli della propria specie, circonfusi da un alto e nobile sentimento democratico che c'è, o meglio c'era, fino a che non si sente un colpo di tosse da una posizione defilata e ombrosa della sala, poi una voce, per piacere, potete portare fuori quel bambino, qui c'è gente che vorrebbe continuare ad ascoltare, grazie, e allora è tutto un girarsi di spalle, una torsione del collo e un roteare vorticoso delle orbite, nella vana ricerca di individuare chi ha interrotto in un modo tanto brusco l'idillio, deve essere certamente una persona insensibile, un animo rozzo, peggio, un mostro, e sono le stesse volte in cui io mi trovo a ripensare agli zoccoli della Konarmija, a quando Semën Budënny mise assieme quattro disgraziati e i loro ronzini e lì chiamò "Cavalieri del Don", e il bello fu che loro ci credettero, al punto che in pochi mesi già stavano dando del filo da torcere niente di meno che all'Armata Bianca di Anton Denikin, fu poco prima dell'ingresso trionfale a Mosca con i Bolscevichi, la campagna ucraina contro i polacchi nel Venti, Kiev sbaragliata ma si trattava di un fuoco fatuo, che aprì la strada alla terribile sconfitta nella battaglia di Komarów e poi ancora la Siberia, l'Asia Centrale, Kraj di Altaj, la Mongolia, fino a che la leggendaria Prima armata di cavalleria russa terminò il suo viaggio in Manciuria e Kamčatka, con l'ultimo combattimento nel settembre del 1924, quando fu conquistata l'estrema Penisola di Chukchi... Cosa c'entra tutto questo, direte voi? Perché, davvero qualcuno pensava che mi importasse qualcosa di uno stronzetto di tre o quattro anni che, per giunta, rompe i maroni a due o tremila maschi adulti senza nemmeno uno con le palle di prendere per le orecchie i genitori e accompagnarli gentilmente all'uscita, come un fante con il suo cavallo sfinito dopo giorni e giorni di marcia nella steppa?