domenica 27 febbraio 2011

Nietzsche, o sulle rose e la vergogna


Non finirò mai di ringraziare il mio amico filosofo Marco Baldino! E' attraverso di lui, per una serie fortunata rimpalli dentro quel grande bigliardo che è Facebook, che vengo a conoscenza di un vecchio filmato in cui è ripreso Friedrich Nietzsche. Almeno, questo è ciò che risulta dalla titolazione su YouTube, da cui proviene il breve video che sto osservando con sorpresa. Alcuni commenti alle immagini ipotizzano però che si tratti di un fake; insomma di un'immagine contraffatta e creata ad arte: l'arte di provocare scalpore, "épater le bourgeois". Ma a me appare verosimile che si tratti effettivamente di lui, del grande filosofo che ha profetizzato l'avvento di un Super-Uomo.

Nietzsche muore infatti il 25 agosto del 1900. Il 28 dicembre 1895, al Grand Café del Boulevard des Capucins di Parigi , i fratelli Auguste Marie e Louis Nicolas Lumière presentano gli esperimenti delle loro ricerche sulla riproduzione visiva del movimento. La Sortie de l'usine Lumière à Lyon è il primo filmato che viene mostrato al pubblico impaziente, in un generale trionfo di meravigliati "ulalalà"! Ci sono stati dunque quasi cinque anni di tempo a disposizione. Tempo impiegato per inseguire, braccare, insinuarsi nell'abitazione di quello che già allora era considerato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, e cercare di rubarne qualche scampolo ottico all'oblio.

Oblio che si era però già fatto largo nella mente dell'uomo con la sua consistenza di ovatta, prima ancora che sulla scena mondana di famose località turistiche come Rapallo, Sils Maria, Nizza e il Lago d'Orta, dove Nietzsche trascorre gli unici preziosi momenti di intimità con l'imprendibile Lou Salomè, che nemmeno si ricorda più se in quell'occasione l'abbia baciato o era forse il comune amico Paul Rée...? Anni prima si erano fatti ritrarre assieme in una celebre fotografia: i due uomini come appesi al giogo di un carrettino, e lei, con un'ironia che davvero si fa fatica a scorgere nell'espressione del volto, da sopra mima il gesto di spronarli con un frustino.

Oblio e ovatta che continuano così a gonfiarsi, a crescere nel mix di farmaci con cui il filosofo viene sedato, fino a saturare ogni via d'accesso alla figura su cui si sofferma spietato l'obiettivo: Ecce, ecce homo, sembrano suggerire le immagini tremule e sgranate su YouTube, con un commento sonoro talmente celebre da essermi scordato ormai anche di quello. Ciò che intravediamo è un signore di mezza età con enormi baffi penduli, sta seduto e immobile su di una poltroncina con i braccioli, la coperta distesa sopra le ginocchia come una bandiera deposta dopo una battaglia perduta, dirigendo lo sguardo in una direzione indefinita, remota anche a sé. Se non sapessimo, o non immaginassimo, che si tratta di Nietzsche, penseremmo solamente: un ebete, un idiota.

Eppure dal 3 agosto del 1889, quando Nietzsche per la prima volta manifestò pubblicamente i segni della crisi abbracciando un cavallo che veniva malmenato dal cocchiere, lo abbraccia e scoppia in lacrime di fronte al teatro Carignano di Torino, agli ultimi anni in cui fu ospite dall'equivoca sorella Elisabeth nella grande casa di Weimar, il termine più appropriato con cui definire l'uomo distrutto che osserviamo con crescente disagio è forse proprio questo: ebetismo.

Nel filmato che in effetti non finisce di convincere - il sospetto è quello che si tratti di fotografie autentiche ma movimentate attraverso la disponibilità dei nuovi software –, alle immagini imbambolate del soggetto vengono sovrapposti brevi inserti testuali, espunti senza un evidente filo logico dalle opere più famose del filosofo. O forse il filo logico è proprio lo scalpore, la ricerca dell'ossimoro spiazzante tra attuale degrado fisico e trascorsa acutezza intellettuale. Si inizia con:

Cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e alla propria suprema speranza.

Continuando: In cosa credi? In questo: che i pesi di tutte le cose devono nuovamente essere determinati.

E ancora: Cosa dice la tua coscienza? Che devi diventare quello che sei.

Per arrivare all'esito più terribile e noto del suo pensiero: Dove stanno i tuoi più grandi pericoli? Nella compassione.

Da cui si approda all'affermazione che io trovo più potente e incisiva di tutte: Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a incutere vergogna.

Premessa a una conclusione necessaria quanto struggente: Che cosa è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno.

Risparmiare vergogna... Io provvisoriamente me lo appunto su un foglietto, si sa mai. Secondo me ci tornerà utile in futuro: risparmiare vergogna, risparmiarla a qualcuno.

Ma torniamo a Nietzsche, il Nietzsche pubblico, che è una costruzione culturale derivata dalla lettura dei suoi testi, e in particolare da quello che avuto forse maggiore successo e diffusione: Also sprach Zarathustra. E' infatti principalmente dallo Zarathustra, oltre che ovviamente dall’Anticristo, che ricaviamo quell'idea di trasvalutazione di tutti i valori dentro il progetto di una nuova umanità liberata, nel segno di una potenza volitiva affrancata dai vincoli morali della tradizione, specialmente cristiana. Un progetto e una visione filosofica che entrano dunque in violenta e frontale collisione con le immagini che scorrono con estenuata lentezza sul monitor del mio pc. Tanto l'uomo che osservo appare inerme e passivo - “in-potente” - tanto l'ideologia nietzschiana si propone come attiva e desiderante, veicolando un'idea di sconfinata potenza.

Ma vediamo allora meglio cosa significa questo termine: potenza. Sul dizionario on-line della Hoepli, che per comodità ho consultato, viene detto solamente:

Potenza [po-tèn-za] s.f. 1) Capacità d'azione di una forza fisica o di un'autorità; l'essere potente: la p. economica e militare di uno Stato; p. fisica; 2) Forza, energia: la p. di un uomo robusto; la p. del temporale ha provocato un black-out. CON. Debolezza.

La potenza viene dunque posta immediatamente in relazione con qualità attinenti l'azione, il fare piuttosto che l'essere, semplificando; solo per breve accenno ci si riferisce all'essere potente, che è appunto colui che ha la possibilità e i mezzi per fare. Ma se vogliamo addentrarci in una prospettiva più sottile - più "nietzschiana" - oltre alla facile e scontata distinzione tra essere e fare, esistono anche comportamenti attivi il cui obiettivo non è puramente materiale, ma indirizzato a una sfera spirituale d'esistenza. Ad esempio lo sforzo, del fare, per "diventare ciò che si è”.

Nel pensiero di Nietzsche è dunque già da subito presente questa ambiguità tra potenza attiva e potenza passiva, che, semplificando ancora, noi potremmo caratterizzare come “potenza del fare” e "potenza dell'essere", intesa quale qualità dello spirito e della consapevolezza. Eppure, da molti, forse dalla stessa sorella Elisabeth e dal suo orribile marito, queste qualità spirituali e riflessive vengono scambiate per debolezza, che per il dizionario Hoepli rappresenta il contrario linguistico di potenza. Non dico, attenzione, che abbiamo ragione noi e torto la vulgata dei superomisti della purezza ariana (mi limito a pensarlo, ecco), ma provo a insinuare un dubbio interpretativo, che attraversa tutta la produzione del filosofo. O forse, più che un dubbio da cui districarsi in una definitiva scelta di campo, si tratta di un elemento filosofico d'ambiguità. Perfino necessario, a ben vedere, per una corretta interpretazione del suo pensiero, che ci porta a riconsiderarlo come intimamente paradossale.

Pensiamo anche solo alle due brevi affermazioni già incontrate. L'una in cui viene sbrigativamente liquidata la compassione - “Dove stanno i tuoi più grandi pericoli? Nella compassione.” - e l'altra in cui si cerca di risparmiare agli altri il sentimento della vergogna - “Che cosa è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno.” E si noti, non viene detto che la vergogna deve essere risparmiata a un amico, a un conoscente, ma semplicemente a qualcuno, e cioè a una soggettività genericamente dotata di presenza ed emozioni. Potremmo arrivare perfino a ipotizzare che questa soggettività a cui risparmiare l'estrema onta che per Nietzsche non può essere morale, ma sentimentale, della vergogna, sia quella di un animale, di una sensibilità non super-umana ma "ipo-umana"... Un cavallo, addirittura!

Ma poi perché dovremmo risparmiare vergogna a qualcuno? E che ci importa di quel cavallo malmenato da un impaziente cocchiere, se non proviamo un seppur minino moto di riconoscimento, qualcosa come un'empatia, forse il ricordo della medesima situazione a cui per scherzo ci siamo prestati sotto l'invisibile giogo di Lou Salomé, offrendoci con volto pudico e corrucciato al lampo di magnesio che accompagna la fotografia? Una tortuosa equazione mentale che senza difficoltà potremmo semplificare dentro la formula di un solo termine: compassione.

Un sasso non prova emozioni e sofferenza, e verso un sasso non avvertiamo l'urgenza di preservarlo dalla percezione forse più lacerante, quella della vergogna La "cosa più umana" di cui Nietzsche parla quando invita a preservare qualcuno dalla vergogna, si mostra allora come realmente super-umana, scavalcando i confini di una visione singolare in cui il soggetto stia ancora al centro Tolemaico del mondo - "dopo Copernico l'uomo scivola dal centro verso la X", scrive il filosofo - e si fa carico non solo della propria ma anche della vergogna altrui. Con compassione. Da qui una domanda altrettanto inevitabile: che cos'è, allora, esattamente, la vergogna?

In una pagina davvero ispirata, Jean-Paul Sartre ci offre una preziosa indicazione: La vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile, ma di essere in generale un oggetto.

Un oggetto che si distingue da un soggetto proprio per la mancanza di presenza e intenzionalità, emozioni e sentimenti, infine di consapevolezza che nasce dalla riflessività. Un oggetto finisce così con l'essere un semplice strumento a uso e consumo di altri, un mezzo privato da fini, direbbe Kant. E perfino il dolore, quando non sa ancora di essere dolore, come in un cavallo, o in un neonato, è vergognoso non tanto per chi lo subisce, ma per chi lo provoca. La vergogna consisterebbe dunque non tanto in chi vede esibita la propria consistenza di “oggetto”, ma in chi reifica qualsiasi soggetto dotato di autopercezione o di proprietà emotiva.

Nel filmato che ho osservato con viziosa partecipazione su YouTube, Nietzsche non è più un soggetto con finalità e intenzioni proprie, ma un semplice oggetto a disposizione delle strategie visive dell'operatore, che potremmo far coincidere con la volontà di indurre un generale sentimento di commozione per il filosofo; obiettivo più che raggiunto, tra parentesi. In altre parole l'operatore ci trasferisce, come una multa che arrivi a destinazione con più di un secolo di ritardo, il sentimento di vergogna che Nietzsche non è più in grado di provare per sé. E ciò non per essere associato a questo o quell'oggetto criticabile, come scrive Sartre, ma a un semplice oggetto, uno strumento come tanti nell'accogliente casa di Weimar, dove viene manovrato con teatrale astuzia dalle sapienti grinfie della sorella Elisabeth. L'operatore sta insomma facendo la più grande e possibile offesa a un essere umano: lo sta mostrando al pubblico come un servizio da tè, e di questa oggettivazione di Nietzsche noi siamo complici. Provandone una sacrosante e meritata vergogna.

(Se vogliamo fare un po’ di allenamento concettuale per capire come funzioni il meccanismo, basta accendere il televisore e sintonizzarci su un telegiornale, uno a caso, ma meglio se è un telegiornale Mediaset e ancora meglio se si tratta del TG4. Ecco, il meccanismo è quello lì. Per intenderci.)

Eppure, nell'indiretto sentimento di vergogna per le misere condizioni dell'uomo – uomo? - che vediamo spegnersi sopra a una composta poltroncina, noi avvertiamo, contestualmente, anche qualcosa come una pienezza, sorta di pena che però non ci impoverisce ma anzi aumenta la percezione che abbiamo del presente, sperimentiamo l'attimo con maggiore potenza. Proviamo allora ad accostare questo sentimento sfuggente con una della pagine più belle di Louis-Ferdinand Céline:

Arrivò il momento della partenza. Andammo una sera verso la stazione un po' prima dell'ora in cui tornava nella casa. In giornata ero andato a salutare Robinson. Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. Sulla banchina della stazione, aspettando il treno con Molly, passarono degli uomini che fecero finta di non conoscerla, ma bisbigliarono delle cose.
"Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quel che hai voglia di fare! Ecco quel che importa... E' solo questo che conta..."
Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L'ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini.
E' forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.

E mi segno così anche questa frase, da quel capolavoro che è il Voyage au bout de la nuit, nel mio foglietto: una grande pena, nient'altro che questo. La più gran pena possibile per diventare se stessi. Prima di morire.

Ma torniamo a bomba al nostro Nietzsche. No, non quello che abbiamo dimenticato sopra a una poltrona con una coperta floscia sulle gambe inermi. Di quello possiamo pure dimenticarci per un momento, senza infliggerci nuova vergogna. Piuttosto ricordiamoci del Nietzsche che ci sprona non tanto a essere, genericamente, quello che siamo, ma a diventare la nostra identità con uno sforzo dell'intenzione: diventa ciò che sei!

Una coincidenza se anche Céline, il burbero Céline, ci invita a non aderire passivamente ai nostri umori, ma a diventare attivamente quel che siamo...?

Ma come possiamo diventare – e soprattutto chi - se la nostra identità non corrisponde con i confini del corpo, che fa di noi un oggetto passibile di vergogna? Al punto che viene da chiederci se ciò che ci riempie di potenza non sia tanto il poter fare, come suggerisce il dizionario Hoepli, ma un'indefinita esperienza interiore. Perché nel fare, nell’azione indirizzata a un fine materiale, per quando sforzo ci mettiamo saremo sempre modesti, comunque inferiori e miseri rispetto a una divinità occhiuta che indifferentemente dispone dei nostri corpi, come una sorella che ci metta in posa come ebeti mascherine. La potenza attiva di cui disponiamo potrebbe invece essere quella di una più viva percezione del presente, che ha proprio nella pena la sua manifestazione più drammaticamente accessibile.

Un teologo cattolico che io ho amato molto, Sergio Quinzio, ha scritto che gli attributi di onnipotenza e di misericordia, associati alla divinità giudaica e quindi cristiana, si sono mostrati storicamente incompatibili. Dopo Auschwitz e il mancato soccorso di Dio, come si può ancora pensare a una divinità misericordiosa, pronta a sorreggere i indirizzare i suoi figli con farebbe un buon padre? O forse Dio non ha “potuto” prestare soccorso a un'umanità perfettamente oggettivata – e quindi svergognata – nelle atroci pratiche dello sterminio nazista, di cui Elisabeth Nietzsche era una fervente sostenitrice. Un'intuizione simile doveva stare alla base anche delle considerazioni di Voltaire sul terremoto di Lisbona del 1755, che utilizzò come argomento polemico contro l'ottimismo filosofico del suo rivale Leibniz. Per arrivare al quesito estremo che erutta dalla gola di Ivan, nei fratelli Karamazov di Dostoevskij:

Padre, perché i bambini muoiono?

Sergio Quinzio, ritornando di continuo su questa interrogazione bruciante, che nella sua irradiazione magmatica ustiona tutta la riflessione non solo filosofica del Novecento, non trova però una risposta teologica soddisfacente. Non riuscendo a salvare capra e cavoli (onnipotenza e misericordia) Quinzio finisce così col propendere per un interpretazione che metta in salvo almeno il lato compassionevole della divinità: non più onnipotente, d'accordo, ma almeno misericordiosa.

Questa uscita laterale del suo pensiero a me però non ha mai convinto del tutto... Infatti, fino dai tempi antichi, quando ci riferiamo a un principio superiore a cui attribuiamo gli ornamenti culturali di una divinità storica, lo facciamo nella ricerca di una causa prima che ci sfugge: io posso provare un sentimento di amore e compassione, come Giobbe verso i suoi figli, ma non sono in grado di riportali in vita quanto Satana me li tolga con il consenso esplicito di Dio. E non sono nemmeno attrezzato per generare mondi, far sorgere dal nulla le magnifiche cime che circondano la vallata dell'Engadina, in cui Nietzsche si alzava di buon ora per la quotidiana passeggiata.

Con il termine Dio facciamo quindi riferimento a qualcosa come una causa prima efficiente, un poter fare; e ciò anche quando non faccia, si ritiri, come nel terremoto di Lisbona e nel supplizio di Auschwitz. Un principio attivo, dunque, che ha dato origine a tutto ciò di cui ora possiamo avere esperienza. Se dunque, come Sergio Quinzio, rinunciamo all'attributo dell’efficienza divina (l'onnipotenza) rimane da ricolmare nominalmente tale la funzione: se non è più Dio a creare, di cosa stiamo parlando quando parliamo di Dio?

Nietzsche questo passaggio l'aveva intuito molto bene, e così non credo che avesse deciso di sfidare Dio sul piano della potenza generativa. Piuttosto, come ho anticipato, io sono convinto che la sua idea di Super-Uomo già contesse qualcosa come l’idea di un supplemento percettivo, o se vogliamo di iperbole umana non tanto dell’azione, ma dell’esperienza consapevole. Che è condizione, per la moderna teoria scientifica, anche di una compiuta esistenza fisica. Così senza voler entrare in una materia tanto più grande dei limiti di questo spazio – ma soprattutto dei miei limiti culturali – ricordo unicamente come nella fisica delle particelle si possa parlare tecnicamente di realtà solo alla presenza di almeno un osservatore esterno. Il quale possiede un ruolo funzionale, per quanto ancora misterioso – non esercita infatti alcuna azione fisica, è sufficiente la sua presenza cognitiva – nel far "collassare" in particella tangibile l’onda quantistica che sta alla base dell'intero edificio della realtà sensibile. Prima di tale “collasso”, o se preferiamo possiamo chiamarlo attualizzazione puntuale, non è nemmeno più legittimo parlare di realtà, la quale si presenterebbe nella forma di una stratificazione indeterminata di stati compossibili di localizzazione.

O detta in altre e più semplici parole: fino a che un uomo o un cavallo non l’osservi, la realtà non esiste.

Specularmente a questa nuova evidenza che proviene dalla ricerca subatomica, il fatto stesso che qualcosa sia causa di qualcos'altro, non significa che queste “cose” – e sto volontariamente usando un sostantivo impersonale – prima dell'intervento esterno esistano come noi siamo abituati a intendere tale termine. E cioè avendone esperienza, percezione. E' infatti possibile che lo statuto di realtà sia determinato proprio dalla relazione tra le parti, ne sia insomma la condizione. E ciò è filosoficamente compatibile con l'idea di una divinità che inizialmente fa, che può, ma che non “è”. O meglio una divinità il cui principio efficiente di potenza dispiegata non esaurisca e contempli tutti i suoi attributi.

Nelle prove ontologiche medievali si afferma che a un Essere perfettissimo non può certo mancare l'attributo dell'esistenza: se fosse infatti solo nel pensiero, sostiene Anselmo, non sarebbe più l'essere più grande è perfetto concepibile dal pensiero, ed entreremmo in contraddizione con il nostro stesso ragionamento. Beh, secondo la moderna fisica dei quanti questa certezza appare quantomeno dubbia... Almeno fino a che un essere molto più imperfetto contempli estasiato tale sublime perfezione. E così, in qualche modo, la determini.

Per esistere, per diventare quel che è, anche la divinità avrebbe dunque bisogno di qualcos’altro, ossia dell’uomo. Ma non di un uomo qualunque: di un Super-Uomo, che sia così gonfio di pena e compassione per ogni cosa, da includere anche la divinità in una nuova visione totalizzante e misericordiosa. Insomma, il principio primo, o causa efficiente, non può intervenire ad Auschwitz né a Lisbona non perché sia disinteressato alle cose terrene, o sia pavido e debole, ma perché non è, o più precisamente "non è ancora". Con ciò intendo dire che non ha acquisito compiutamente coscienza e disponibilità della propria infinita onnipotenza e misericordia, che però già esistono come livello di possibilità, almeno dentro il suo spettro quantistico d'onda. Possibilità che ha dunque bisogno dell'uomo per riconoscersi e determinarsi, e con ciò diventare finalmente ciò che è: Dio.

Naturalmente Nietzsche non è mai arrivato ad affermare esplicitamente questo pensiero, e al contrario ha scritto pagine di assoluto biasimo per la compassione, che abbiamo già ricordato. Ma appunto, a che Nietzsche ci stiamo riferendo? Quello dei suoi testi filosofici, naturalmente. E se invece decidessimo di considerare il “vergognoso” filmato su YouTube non come un incidente di percorso, ma come un momento decisivo del suo cammino filosofico… Momento il cui inizio andremmo dunque a collocare nella sequenza di Torino, di fronte alla folla accaldata che trascorre nel piazzale del teatro Carignano, prima di infilarsi nel fresco di qualche pasticceria commentando distrattamente con il vicino:

Neh, hai visto quel matto che c’era lì fuori, quello con i baffoni che abbracciava piangendo un cavallo?

Non esistono però parole – a parte queste immagini di eloquente vigore – che potrebbero suffragare la nostra provocante intuizione. E così, anche stavolta, tocca andare a ricercarle in luoghi alternativi la filosofia. Ad esempio nella pagine di un altro grande scrittore francese:

...Il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "…Piangerò".
" La colpa è tua", disse il piccolo principe, "Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…"
" E' vero", disse la volpe.
" Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
" E' certo", disse la volpe.
" Ma allora che ci guadagni?"
" Ci guadagno", disse la volpe, " il colore del grano".

Ogni volta che leggo questo passaggio, giustamente famosissimo, dal Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, mi vengono in mente le parole attribuite a Siddhārtha Gautama, il Buddha storico. Parole che pronunciò dopo che gli venne comunicato di avere appena avuto un figlio dalla moglie, che era anche la propria cugina come un tempo si usava nelle caste superiori, a cui entrambi appartenevano. Un figlio dopo tredici anni di matrimonio, finalmente! Il bambino si chiamava Rāhula, stava benone, e Siddhārtha rispose a chi gli portava la bellissima notizia:

Ah.

Sì, disse semplicemente “ah”. E dopo una lunga pausa di apparente distrazione, aggiunse sconsolato: “Un altro legame, un'altra grana da cui liberarmi...”

Ok, devo ammettere che la traduzione è molto libera, ma la sostanza è quella: il manifestarsi di un legame carnale, quindi sentimentale, è percepito dal Buddha come negativo, un ostacolo verso il percorso che porta alla liberazione nel nirvana. Ma ancora non possiamo sottrarci a una nuova domanda che meglio precisi la materia: cos'è esattamente questo nirvana, di cui ora tutti parlano con moderna convinzione?

Dalla libera enciclopedia Wikipedia:

Il termine nirvana[1], dal sanscrito nirvāṇa esprime un concetto proprio delle religioni buddhista e giainista, successivamente introdotto anche nell'induismo. Ha un ruolo fondante soprattutto nel buddhismo, dove possiede il significato sia di 'estinzione' (da nir + √va, cessazione del soffio, estinzione) che, secondo una diversa etimologia proposta da un commentario buddhista di scuola Theravāda, libertà dal desiderio.

In altri termini il nirvana sarebbe l'esatto ribaltamento del discorso della Volpe al Piccolo principe, quando lo invita ad addomesticarla. E questo perché nel processo di progressiva confidenza che si va creando nel “rituale di addomesticamento”, come lo chiama la Volpe, si vengono a creare e si consolidano dei legami emotivi, che sono ciò che ci trattiene nel qui e ora, nel dominio del desiderio e della sofferenza. Culminante in una seggiola con una copertina smunta sopra alle ginocchia, tua sorella che ti mostra orgogliosa al cineoperatore come un nuovo servizio da tè in porcellana. Ti è nato un figlio, Siddhārtha. Che sfiga.

Buona parte del pensiero e della riflessione di Nietzsche a me sembra andare nella stessa direzione della dottrina buddhista, almeno di quella classica o Theravāda: la liberazione dai legami, dal dolore che nasce dalla presenza dei legami emozionali. Il suo rifiuto della compassione sarebbe dunque una forma di rifiuto al dolore indotto, ai legami emotivi sperimentati nella forma di una contaminazione empatica. Eppure Nietzsche non sembra sottrarsi al richiamo dell’altra causa psichica della sofferenza umana, così come interpretata dal Buddhismo, e cioè il desiderio: “Si desidera il desiderio, non la cosa desiderata”, scrive un Nietzsche ancora provocatorio e sornione. Tanto che la sua esibita potenza è anche o soprattutto una potenza desiderante, in polemica con quella “vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte” tipica del piccolo borghese, che ora esce nuovamente dalla pasticceria accanto al teatro Carignano con un bel fiocco sopra al pacchettino dei gianduiotti. Una vogliuzza per il giorno e un gianduiotto per la sera, "salvo restando la salute.”

In particolare, in Nietzsche e al contrario di Buddha, il desiderio è visto come il principale carburante per l'auspicata e volontaria realizzazione di sé. Si diventa ciò che si è anche desiderando di non essere ciò che non si è. E cioè dei vili che nemmeno più avvertono i passi di una minuscola stellina danzante, dentro il proprio petto. Esistono però anche scuole buddhiste che intrattengono un rapporto più problematico col desiderio, e soprattutto che danno grande importanza all'esperienza emotiva della compassione.

In quella particolare rielaborazione personale realizzata dal teologo indo-spagnolo Raimon Panikkar, il Buddhismo viene ad esempio accostato in chiave dialettica con Cristianesimo e Induismo. La compassione diventa così l'elemento pienamente umano (o super-umano, potremmo parafrasare in omaggio all'alfabeto nietzschiano) che entra in relazione con gli altri termini di quella sua particolare declinazione della Trinità metafisica, da lui chiamata Cosmoteandria. L'essenza che sta alla base di tutto ciò che sperimentiamo, per il grande teologo appena scomparso corrisponderebbe infatti a una sintesi attiva e continua tra Cosmo (o universo, sostanza estesa), Dio (la causa efficiente) e infine Uomo. Ma cosa può dunque apportare l'Uomo, a livello addirittura ontologico, fondativo, che Dio e il Cosmo ancora non posseggono?

Beh, ciò che l'Uomo, in quanto figlio legittimo del Padre – il Cristo storico non rappresenta dunque un’eventualità unica ed eccezionale, ma per Panikkar è un modello universale e accessibile a tutti – ciò che l’Uomo può portare in dono al Cosmo e a Dio è proprio la compassione, una pena orizzontale e diffusa per tutto il creato… La stessa pena, sì, che gonfia la pelliccia morbida della Volpe prima che il Piccolo principe riprenda il suo viaggio interstellare, diretto verso la sua Unica Rosa dimenticata su un pianeta minuscolo e roccioso come uno scoglio. Oppure la pena infinita provata da Ferdinand Bardamu, alter ego di Céline, al momento di separarsi da Molly:

Una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini...

Ma se allora volessimo spingerci in un estremo azzardo filosofico, provando a rileggere la teoria del Super-Uomo di Nietzsche alla luce di questo sentimento, così “vergognoso”, costituito dalla pena, cosa ne potremmo ricavare? Forse proprio che la pena, lungi dal confinare "l'oggetto umano" dentro i confini della propria funzionalità tecnica, è il sentimento che gli assegna quella pienezza soggettiva ancora estranea alla divinità, almeno fino a quando essa venga identificata in un impassibile e astratto Demiurgo. Sono infatti il pathos umano, e forse anche quello animale, vegetale, che trasformano la toti-potenzialità divina in vera presenza vissuta, e ricompongono il dissidio originario tra misericordia e onnipotenza.

Non sarebbe dunque Dio che, cacciando Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, insinua nell’umanità il sentimento del pudore, ma al contrario proprio l'uomo che ritorna a Dio con in mano il dono più prezioso di tutti: la vergogna. L'uomo insegna a Dio a vergognarsi di essere Dio, e ad aver pena di tutti noi che arranchiamo tra pasticcini e cavalli maltrattati.

Queste conclusioni, naturalmente, nella pagine di Nietzsche non ci stanno nemmeno a cercarle con il lanternino. E questo perché sono talmente ovvie e visibili sulla superficie testuale del suo corpo, pietosamente ricoperto dalla sindone di una copertina di lana, in quel compimento mancante della sua opera che è la biografia. Sì, in quel preciso momento Nietzsche diviene davvero ciò che è, ossia Super. E lo è, finalmente, senza più bisogno di cercare altro da quel che già non sia, perché smette di contendere al Demiurgo il primato della potenza desiderante con cui creare i cieli e la terra. Ma solo sente, prova, sperimenta...

Lo scacco matto con cui riesce finalmente a sconfiggere l'ingessata morale della Chiesa istituzionale, sta allora nell'assurda pena di un cavallo. Che nel suo corpo inebetito e muto, a distanza di anni, ancora ci trasmette.

venerdì 25 febbraio 2011

Girello, o sulla differenza tra dirigere e fotografare


Io ho un amico che ha lavorato alla direzione fotografica dei film di un famoso regista cattolico. "Altro che Gesù, l'amore cristiano e la solidarietà contadina e tutte quelle balle lì", mi dice il mio amico parlando di questo famoso regista per telefono. "Con suo figlio, che è mio collega, si è comportato come un vero e patentato stronzo!"
Poi mi dice tante altre cose, la pallina della conversazione saltella dentro il flipper del momento, l'estro del caso. Fino a che, senza alcun logico preavviso, il mio amico esclama: "Che carino che carino!"
Io penso immediatamente che si stia riferendo al contenuto del mio discorso, visto che in quella fase sono io a parlargli con trasporto, chissà più di cosa. Però non mi sembra che quel che stavo dicendo fosse poi così "carino"...
E però lui insiste, anche nella mia pausa lambiccata, continuando a ripetere "...che carino, proprio carino, un amore!"
Allora mi viene il dubbio che si stia riferendo a me, e che il mio amico sia diventato omosessuale all'improvviso. "Beh, dai, anche tu non sei poi malaccio..." rispondo dunque imbarazzato e per non generare ulteriore imbarazzo. "Sì, insomma: proprio un bell'ometto!"
Ma lui, del tutto indifferente a quel che gli sto dicendo, prosegue imperterrito nel suo soliloquio di vezzeggiativi: "Carino, che carino, con quelle gambette..."
Solo a quel punto - che scemo! - mi accorgo che non sta parlando di me e della nostra conversazione, a cui già da prima era evidentemente poco interessato. A ben vedere non sta nemmeno parlando "a" me, non mi ascolta più, è entrato in un suo mondo parallelo e del tutto impermeabile all'esterno. Un mondo in cui almanacca tra sé e sé del suo primogenito avuto di recente, che davanti alla postazione telefonica sta cercando muovere i primi passi con l'aiuto di un girello.
Quindi lo osserva, incantato, come Michelangelo di fronte al manifestarsi imperioso del David da un massiccio blocco di marmo, con lo scalpello che ancora gli penzola sfinito tra le mani.
Mi viene allora da immaginarmi Federico Fellini al telefono con il famoso regista cattolico, Fellini che gli rivela la sua intenzione di girare un film sulla crisi di un altro regista, suo alter ego. Un film sull'impossibilità a realizzare quel film. Che sarebbe il nono della sua produzione ma resta sempre inconcluso, come sospeso in sogno, arenato a metà. "Potrei, ecco, sì, potrei chiamarlo Otto e mezzo..." aggiunge Fellini con la sua vocina astratta e sorniona.
Ma il famoso regista cattolico, invece di starlo ad ascoltare, per tutto il tempo ha ripetuto "che carino che carino che carino", ipnotizzato dal figlio che zampetta dentro a un enorme girello. Ma più che un semplice girello, nella mia immaginazione, diventa una giostra, un'arena, la pista circense in cui Mastroianni dirige il festoso girotondo con i fantasmi di una vita intera, nella scena finale di Otto e mezzo.
Mmm... no, è poco credibile vero?
Il famoso regista cattolico, con il figlio naturale, si comportava infatti come uno stronzo; uno stronzo "patentato", addirittura. Almeno stando a quanto sostiene il mio amico fotografo e padre orgoglioso e assorto. Tanto che mi viene ora da pensare che la differenza tra fotografare, semplicemente, la propria e altrui esistenza in un estatico clic, e invece provare a dirigerla dentro la complessità del reale, sia gratta gratta proprio questa qui: distogliere per un momento lo sguardo dall'angusto girello che fa da muraglia ai confini famigliari, e muovere i passi incerti dei nostri fantasmi all'esterno di noi...
(A costo di guadagnare la patente di stronzi, certe volte, perché no.)

giovedì 24 febbraio 2011

Guy Ernest Debord e la caccia al fagiano, un contributo


(In via del tutto discrezionale, e sperando con ciò di non fargli torto, espungo il messaggio di Guy Ernest Debord dallo spazio dei commenti del mio precedente post, pubblicandolo qui con la meritata evidenza di un testo autonomo. La ragione della mia scelta risulterà chiara alla lettura della sua analisi e dalla precisione del linguaggio con cui è svolta. Le conclusioni a cui lui approda si distanziano però – ma questo solo da un certo punto in poi, come lo sdoppiarsi del lago di Como nei due rami – da quelle a cui sono giunto io; e ciò anche grazie al contributo del suo bell'intervento. A cui aggiungo una personale chiosa riflessiva posta in calce, oltre questa breve premessa che ha la funzione di benvenuto. In tal modo, e forse proprio in virtù di tale biforcazione di pensiero tra di noi, la sagoma miniaturizzata del lago lombardo potrebbe essere interpretata anche come la figura stilizzata di una fionda. Con cui rilanciare, indefinitamente, il nostro pensiero contro la convinzione occhiuta di tutti i semafori: dove il rosso è rosso e il verde è verde; quanto all'arancione, ognuno la veda a modo suo. Già che Facebook davvero somiglia a un semaforo lampeggiante. E ciascuno, secondo responsabilità, può decidere se entrarci o aspettare il prossimo giro... gh)


Caro Guido, devo confessarti che anch'io malvolentieri, vedendo i tuoi interventi sulla mia bacheca di Facebook, gli ho prestato particolare attenzione; se non alcune volte distrattamente e sovrappensiero. Questa è la prima volta che ne leggo uno per intero, e dunque anche la prima che ne commento una.
Io temo che la comunicazione su Facebook sia essenzialmente un riflesso naturale della nostra epoca post-industriale spettacolarizzata, ossia che si basi in sostanza sulla mera comunicazione fine a se stessa e che abolisca l'importanza di ogni suo contenuto.
"A cosa stai pensando?" recita il credo di Facebook, come quello di Twitter o di qualsivoglia Social Network, che si basa sulla pura constatazione di "esserci" e tralascia tutte le considerazioni su "in che modo?","come?", "perché?".
Vorrei quindi riflettere anche sullo status degli "amici" su Facebook: io credo che essi non svolgano, appunto, la stessa funzione che hanno nella vita reale, ma non sono altro che un indice di diffusione; cioè, ho 258 amici, ecco il grado di diffusione del mio messaggio. Il "mi piace" non è altro che la conferma del successo comunicativo, ed è, a mio parere, più importante del "commento", perché è afono, privo di significato,(non esiste un "non mi piace", e giustamente), dunque paralizza il dialogo ed è solo un indice statistico.
In secondo luogo mi soffermerei sul fatto che Facebook ti impone di esprimere "Cosa stai PENSANDO", dunque non di scrivere, ma esattamente di comunicare il tuo pensiero che non è Letteratura, nel senso più alto del termine, ma un bisogno, una necessità umana, assimilabile a quella di mangiare, dormire, ecc. ecc...
Facebook si pone come uno spazio mentale, ecco, forse tutta la rete ha questa dimensione psichica, ove la Parola si spoglia del suo significato pieno, polisemico, per diventare comunicazione allo stato puro, dei lampi che attraversano il cervello senza lasciare traccia.
E quindi è logico pensare che gli amici su Facebook condividano con te uno spazio sovra-reale, ben più reale della vita, perché è uno spazio intimo, psicologico. Nella vita reale siamo costretti ad essere narrativi quando parliamo, quando dialoghiamo:"Stamattina mi sono alzato, ho mangiato, ..." anzi direi che l'intera tradizione occidentale comunicativa si fonda sulla narratività, sulla progressione orizzontale. Scrivere invece su Facebook "Sto mangiando" non è più narrativo, è un indice, una fotografia, del vissuto: lo status falso, simbolico, del significante sparisce per diventare quasi solo significato (dico quasi perché impossibile operare quest'annullamento completamente.)
Si potrebbe obiettare: ma nella vita, se un amico mi dice "Sto mangiando" nel momento in cui addenta un panino, non è la stessa cosa? La differenza consiste, secondo me, che in quella occasione vi è una separazione netta tra chi pronuncia l'affermazione e chi la riceve.
Se SCRIVIAMO su Facebook "Sto mangiando" la separazione viene annebbiata perché si ricalibra su un piano puramente psichico, anche noi partecipiamo inconsciamente al mangiare, mentalmente mangiamo anche noi. Lo SCRIVERE ha un'importanza fondamentale: ci si poteva immaginare nel futuro un Video-telefono, ma ci si potevano immaginare gli SMS, che hanno un'importanza ben più rilevante nella nostra epoca?
Concludendo: Facebook non è LETTERATURA, e tutto ciò che ne è affine è bandito da esso.
Forse è per questo che Sara ha bandito te da Facebook, perché non comunicavi nel modo appropriato.

il tuo amico su Facebook
Guy Ernest Debord


Caro Guy,
bene, ho seguito il tuo ragionamento con la mia gondola lariana senza sforzo eccessivo, e anzi con piacere. Il lago era calmo e la giornata tiepida e quasi primaverile. Così la tua rotta mi è stata di grande utilità, aiutandomi a mettere a fuoco pensieri che erano come mulinelli impazziti. Ti ho seguito solo fino a un certo punto, però. Poi i nostri tratti di navigazione si sono separati. E questo è avvenuto nella biforcazione a cui già accennavo nella premessa, con i miei remi hanno virato nel momento in cui tu affermi:

“...logico pensare che gli amici su Facebook condividano con te uno spazio sovra-reale, ben più reale della vita, perché è uno spazio intimo, psicologico”.

Ecco, è in questo preciso punto che sorge la mia obiezione. La tua argomentazione contiene infatti un elemento implicito – o se preferiamo “apodittico” – che così potrebbe essere riassunto: la sovra-realtà psichica, per il solo fatto di essere psichica, è anche reale, addirittura più reale della vita, come tu aggiungi.

Per me la determinazione della nozione di realtà scaturisce invece da qualcosa come una triangolazione: in prima istanza uno stimolo che genera la risposta psichica; in seconda battuta la stessa risposta, o percezione; ma in ultimo è necessaria anche la presenza di una soggettività estrinseca, con cui confrontare l'esperienza e poterla dunque battezzare come "realtà".

Senza viceversa una sintesi cognitiva delle percezioni singolari – e parlo appunto al plurale, perché sono necessari almeno due soggetti o osservatori consapevoli – trovo che sia alquanto dubbio l'utilizzo di tale termine. Realtà.

Ma a questo punto tu potresti obiettarmi che l'attribuzione dello statuto di realtà, che andiamo a determinare nel modo da me proposto, si avvicina in modo impressionante a quello di cultura, finendo quasi col sovrapporsi con esso. Esattamente, è quanto io penso. Con l'unica differenza che il reale prevede sempre anche la presenza di uno stimolo esterno, per non dilagare definitivamente nel fantastico.

Ciò che tu chiami la "realtà psichica" di Facebook, io lo chiamo dunque “fantastico realizzato”. Dove ciò che dilaga senza più alcuna diga culturale è l'elemento
impressivo, e cioè l'impressione non più verificata – e verificabile – dentro la triangolazione dell'esperienza.
Mi rendo conto che il discorso si fa ora un poco tortuoso, e mi viene così da semplificarlo con un esempio. Se due cacciatori hanno un'impressione, leggermente differente tra di loro, su quale sia il cespuglio dove si annida un magnifico fagiano, sarà la deflagrazione pirica della cartuccia a determinare la consistenza del reale: chi dei due tornerà dal proprio cespuglio con il fagiano orgogliosamente innalzato dentro il pugno, avrà ragione sull'impressione dell'altro.

Ma con ciò avrà contribuito anche alla determinazione della realtà di quella caccia. La caccia che avviene dentro Facebook, al contrario, è una caccia unicamente "impressiva". Dove ci sono migliaia di cespugli ma nessun effettivo fagiano. E puoi capire, a questo punto, che diventa piuttosto difficoltoso parlare di realtà, quando manchi la verifica empirica alla propria sovrabbondante impressione.

Il processo di triangolazione che sta alla base della determinazione di una realtà, per quanto ampiamente culturale, come già visto, nel mio testo io l'ho chiamato
elaborazione. Intendendo con ciò il gesto del pensiero che non si sottragga alla verifica del fagiano, e che anzi cerchi con energia e costanza di stanarlo.

Detto ciò, sono perfettamente d'accordo con te quando concludi che “Facebook non è LETTERATURA, e tutto ciò che ne è affine è bandito da esso.” Sono d'accordo proprio perché la letteratura, anche quando si dichiari fantastica, non rimane effettivamente mai al solo dato “impressivo”.

Al contrario la letteratura ricerca nessi che non sono empirici, d'accordo, ma sono però
drammaturgici, ossia forniti di consistenza all'interno del dominio del possibile. E ciò nello sforzo di cogliere non tanto il fagiano, nella sua concreta e fisica immediatezza, quanto piuttosto le ragioni stesse per cui Tizio Caio e Pinco Pallino (ma chiamiamoli pure anche Tizio e Pinco Schützen) si trovano in quel momento dentro un bosco, vestiti come scemi e con uno schioppo a tracolla. E tutto questo nell'aleatoria speranza di acciuffare uno stramaledetto uccelletto, che non si trova nemmeno a fargli cucu con le dita a trombetta sul naso...

Quando invece, senza tutto quello sforzo, il pagamento della licenza annuale di caccia, la vaccinazione ai Setter, il costo delle armi e delle munizioni, potrebbero tranquillamente andare in un ristorante e mangiarlo già bello che cotto e servito e con le salsine, quel cavolo di fagiano. Che, tra l'altro, sarebbe sicuramente molto più buono di come lo potrebbero cucinare le loro mogli: Tizia e Pinca
Schützen.

Intendo dire: le motivazioni che sottendono le azioni (svegliarsi la mattina per andare a caccia) hanno nessi non necessariamente logici e causali (uccido per mangiare); ma nemmeno ricalcano l'impressione fugace del momento, il fantasma del presente (ho un improvviso languorino allo stomaco, il dito mi prude sul grilletto). Potremmo ipotizzare qualcosa come una trama carsica che unisce i fatti attraverso rapporti analogici non arbitrari ma nemmeno necessitati (la fame che si lega alla violenza che si lega alla forza che si lega alla virilità che si lega al potere che si lega all'alzarsi presto la mattina) e che a un certo punto sgorga all'evidenza con l'impeto dirompente di un gaiser (il colpo di fucile che abbatte il fagiano).

Una storia è questa cosa qui, caro Guy Ernest Debord. E una storia ha bisogno di emozione e impressione, che sono gli elementi delle spettacolare dispiegato, come tu ci insegni. Ma una storia ha bisogno anche di tempo, relazione, consapevolezza e infine espressione. Che sono invece parte costitutiva della prassi
narrativa, ma anche gli stessi sapidi ingredienti di una vita.

Tanto che il nome di quel ristorante in cui Tizio e Pinco potrebbero andare per gustare il loro fagiano arrosto, forse è proprio Letteratura.
Con un menu che non rientra, al contrario del fanta-mondo di Facebook, nella dieta dimagrante dell'impressione, della sensazione svincolata dall'esperienza, la tautologia che ricalca il momento psichico prima che esso possa strutturarsi in pensiero, al netto di una temporalità storica che è condizione di scelte intenzionate. Perché la letteratura, al contrario, ricerca consapevolmente il lato non manifesto ma consistente del reale, non solo la sua dimensione spettacolare ed ipnotica. E' dunque questo il piatto della casa, la specialità cucinata dalla letteratura. Non una fenomenologia ma una “noumenologia pre-causale”, potremmo forse dire...

con simpatia,
guido hauser

mercoledì 23 febbraio 2011

Chiara Schützen c’est moi, o su come facebook somigli sempre più alla casa di una bambola


Il suo nome è Chiara Schützen. Lo scrivo così, per intero e per davvero, senza falsi pudori di privatezza. Anche perché sono certo che si tratta di uno pseudonimo. Quando l'ho conosciuta portava infatti un diverso cognome ed era fidanzata con un mio amico. Lui parlava di continuo e lei non parlava mai. Una coppia bilanciata, per così dire. Poi si sono lasciati e ho visto sempre più raramente lui, che nel frattempo aveva cambiato casa, macchina, lavoro, vestiti. Lei, non l'ho più rivista.

Ci sono certe coppie che davvero somigliano al mito platonico dell’Unico originario. Così quando si spaccano in due, si lasciano o vengono separate dai casi della vita, finiscono con lo sperdersi nel mondo - ognuno per il suo mondo - e come in quei film dove gli indiani cancellando le tracce del passaggio dei cavalli con una frasca, ti rimane di loro solo l'immagine fissa di un tramonto in cinemascope. Salvo ricomparire, all'improvviso, quando formano una nuova e diversa unità.

Così dopo quasi dieci anni che non ho più notizie di Chiara Schützen - che allora, per me, si chiamava semplicemente Chiara, essendo il vero cognome sostituto nella mia mente da un attributo: "fidanzata di Alberto" - lei si rifà viva con la stessa inattesa urgenza di una freccia Apache. Chiedendomi, in un sibilo, l'amicizia su Facebook!

Io subito accetto, per carità, l'amicizia su Facebook non la si nega a nessuno, come la ragione agli scemi. Però in un primo tempo non realizzo che si tratta di lei, la bella e muta compagna del mio amico che ha cambiato casa, macchina, lavoro, camicia e credo anche fidanzata, andando a costituire un nuovo Unico platonico in qualche altro mondo parallelo al mio. Ma quando finalmente collego i puntini e la riconosco, mi fa molto piacere ritrovarla su Facebook, ora trasformata e finalmente individuata in un nome e un cognome singolari:

quelli di Chiara Schützen, appunto.

Felice di risentirla e ancora più felice nell'accorgermi che, nel frattempo, ha guadagnato un'autonomia di parola senza l'invadenza verbale del suo uomo. E la invito dunque a raccontarmi, a raccontarsi. Magari in un luogo fisico e in un indefinito futuro prossimo, in cui riempire di parole e immagini questi dieci anni di silenzio. Davanti a un tè, ad esempio.

Ma vedo che lei è un poco turbata dalla mia proposta, riottosa a trasferirci subito al tavolo della vita. Preferendo rimanere rannicchiata ancora per un po’ dietro alla rassicurante lavagna di Facebook. Immagino che abbia inteso perfettamente che il mio non voleva essere un invito sottilmente seduttivo, anche perché tra me è lei non è mai esistito alcun sottotesto del genere. Ma ci sono persone per cui Facebook è una cosa stramaledettamente seria, e la vita è invece la risata senza denti di un folle.

Non dico che queste persone abbiano torto, ma nemmeno che Chiara Schützen abbia ragione. Semplicemente mi limito a constatare che è così. Al punto che le risate senza denti a me contagiano come gli sbadigli: inizio a sorridere pure io, non mi tengo più, scoppio! Sì, io ci sto decisamente bene di fronte al panorama di una risata senza denti. Meno dietro alle lavagne.

Non ho dunque più rincontrato gli occhi grandi di Chiara Schützen davanti a una tazza di tè. Io con le mie risate imperfette, lei con la sua pudica lavagna. Però, quasi tutti giorni, quando aprivo distrattamente le pagine di Facebook potevo costatare la sua attività a dir poco furibonda. Quando si alzava la mattina scriveva "mi sono alzata", andando a letto la sera "sono andata a letto". E poi riflessioni più tortuose, anche un poco altisonanti e spesso virate al mistico e all'allusivo; oltre che alla comunione trascendentale tra uomo e natura, da cui il nuovo cognome. A cui accompagnava, naturalmente, un prezioso palinsesto di video musicali espunti da YouTube. E da tutto questo adoperarsi ne ricavava una quantità di pollicioni alzati, traducendosi in "MacGuffin" hitchcockiano per interminabili conversazioni.

Del tipo: "Eh sì, tocca a tutti di alzarsi, altrimenti saremmo morti", come risposta alla sua dichiarazione mattutina. Con un altro che aggiunge: "Sai che ti dico, io oggi ho deciso di non alzarmi". E un altro ancora: "Beata te che ti alzi, io sono a letto con l'influenza". Insomma, quel che si dice un ampio e problematico dibattito intellettuale. Ma ancora una volta ne prendo semplicemente atto:

è Facebook, quella cosa lì. E' il nostro tempo.

Al contrario, fuorviando probabilmente la natura del mezzo, io mi limito a inserire sulla bacheca di Facebook il rimando ai miei testi nel blog, in forma di semplice link. E sono interventi, lo confesso, per cui in molti casi ho dovuto spendere tempo e concentrazione, pause nella ricerca della parola giusta. Sforzo insomma. Poi però subito scappo via, mi disconnetto, senza aggiungere commenti, dichiarazioni di intenti giornalieri o pollicioni alzati nei post altrui.

Sarà forse in ragione di questa mia programmatica ritrosia che da qualche tempo, quando mi alzo - oggi mi sono alzato – o vado a dormire – sono andato a letto -, non trovo più le avvincenti cronache quotidiane di Chiara Schützen. Così controllo tra i miei contatti e mi accorgo con sorpresa che è sparita dalla lista degli “amici”, scomparsa nel nulla, dileguata.

Penso da principio, e con sollievo, che anche lei abbia deciso di cambiare vita, casa, macchina, vestiti, lavoro. O magari di ricongiungersi con il suo ex fidanzato, ridando vita all’Unico infranto. E che sia così sgusciata fuori dalla lavagna di Facebook, la sera, o la mattina presto in punta di piedi, senza però dire a nessuno “oggi mi solo alzata, e sono fuggita via”. Quindi, come anche io mi propongo sempre di fare, sia tornata a pestare i piedi dentro alle pozzanghere sporche. A ridere insieme alle risate senza denti dei matti.

A un ulteriore verifica, mi accorgo però che è ancora ben conficcata dietro a quella lavagna incombente, non si è cancellata. E il suo libricino catalogato e ben riposto dentro la sconfinata biblioteca di Facebook. Sì, Chiara Schützen, come Silvio, c'è. E menomale...

Sono dunque solo io - me ne rendo finalmente conto, che ingenuo! - a essere stato definitivamente espulso dalla sua vita, radiato da quella rozza caricatura dell'amicizia che sono i contatti personali, confinato nel limbo opaco dell'irrilevanza. E inizio così a riflettere sulle ragioni della cacciata dal paradiso di Chiara Schützen:

non le ho mai fatto nulla... scritto alcunché di sconveniente... offesa in vario modo...

Ma forse è proprio quel nulla, nel tempo e nel tempio di Facebook, a essere diventato sconveniente. Appendere il cartellino del proprio pollicione all'affermazione tautologica di un risveglio, commentarlo, è viceversa un tutto gradito, un galateo perfino preteso dentro l'urgenza di segni di quella lavagna morta, ma affamata di riscontri. Quasi fosse un eccentrico vampiro che, invece del sangue, pretende il proprio quotidiano contributo di gesso. Il succo grafico in una vita altrettanto ipotetica.

E così anche io lascio la mia pisciatina sul paracarro, timbro il cartellino su Facebook. Ma non è abbastanza. Comprende ma non si impegna, direbbero le vecchie maestre di una volta. Non partecipo con sufficiente convinzione ed entusiasmo. O se lo faccio vado fuori tema, non parlo del mio compagno di banco, eccedo il momento presente. Tanto da finire in castigo, non dietro la lavagna ma fuori dalla porta.

Una porta da cui sono entrato all'incirca un paio d'anni fa, iscrivendomi a Facebook. E come ho detto senza fare molto più che aggiungere un rimando ai miei occasionali interventi. I quali, progressivamente, vanno però perdendo di generale interesse, scorrono nella più assoluta e totale indifferenza. Quasi fossero titoli di coda di un film polacco con sottotitoli in russo. Quello tra me e Facebook somiglia forse al rapporto che esisteva tra Alberto e Chiara Schützen. Lui parlava sempre, di continuo, produceva e promuoveva sillabe. E lei se ne stava zitta.

Solo che non ho ancora capito se io sono Chiara oppure Alberto...

Ieri ad esempio ho scritto un intervento che è forse il mio più importante e denso, almeno da quando tengo un blog. Una riflessione complessa sullo spettro degli anni ottanta, che a distanza di decenni continuerebbero a sporgersi sul presente, confondendone i linguaggi in una Babele di segni. Una riflessione a tratti difficile, lo riconosco, perfino dolorosa e spudorata. E la cosa che mi ha più sorpreso è stata questa: è stato anche il giorno in cui ho avuto in assoluto meno visite sul sito. Oltre che meno reazioni, commenti, pollicioni alzati. Niente di niente.

Attenzione, non voglio fare una geremiade personale, ma semplicemente appoggiarmi alla minima vicenda di Chiara Schützen per introdurre un elemento di dubbio, il sospetto di qualcosa di più ampio che ci sta accadendo; si, anche a te Alberto, che ora starai accomodato in chissà quale nuova berlina accessoriata, morbido pullover, amore totalizzante e remota fosforescente galassia. Noi, sì. Tutti noi. Già messi a dura prova dalla complessità caotica della scena moderna, che avrebbe bisogno di una complessità interpretativa almeno speculare, per reggerne l'urto, per non essere sommersi dall'onda, noi che facciamo?

Cerchiamo la semplicità, è chiaro.

Rispondiamo, come la psicologia dinamica ha da tempo intuito, attraverso la figura tipica della formazione reattiva. Costituita dalla scorciatoia estetica, o meglio ancora esotica, spirituale, il gessetto rosa con cui scrivere "oggi mi sono alzato", "sono andato a dormire", "eccì", "uff", "che palle..." Oppure è la fine citazione esoterica da Guenon, la foto del bambino tanto carino al suo primo dentino - e giù, su quello, migliaia di pollicioni - la sdegnosa constatazione: “Hai visto come era vestita di merda la Canalis a Sanremo?”

Ci rifugiamo insomma dentro l’alfabeto dell’impressione, non disponendo più di un alfabeto adeguato all'elaborazione.

Da questo punto di vista Chiara Schützen non rappresenta un incidente di percorso, ma addirittura un campione di modernità incarnata: la resistenza a incontrarmi dentro la vita, a fronte della sua offerta ad essermi "amica" nel possibile; l'urgenza a tradurre in segno grafico ogni sussulto gastrico e contingente; la perentorietà didascalica e citazionista; il fastidio verso la complessità del reale fuggito in un idillio panico e alpino; il bisogno di un consenso visibile e immediato, da enumerare poi sul moderno abaco dei pollicioni.

Tutto questo ci riguarda molto più di quanto si sia probabilmente disposti ad ammettere, perché Facebook non rappresenta forse altro che il Verbo unico dell'impressione, che si dispiega imperioso dentro la cornice mobile del presente: "l'impressione al potere", ecco. E chi non si allinea, fuori dalla porta!

La risolutezza di Chiara Schützen nell'espungere qualsiasi elemento di alterità - in questo caso si tratta di me, o meglio del mio recalcitrante avatar nominale - da un orizzonte addomesticato che davvero finisce col somigliare alla Casa di bambola di Ibsen, si mostra così in filigrana quale esisto necessario e addirittura previsto. Ma forse, più che a Ibsen, converrebbe richiamarsi a Flaubert, tanto per fare anche io la mia porca figura con le citazioni. E concludere che in fin dei conti, Chiara Schützen, c'est moi.

martedì 22 febbraio 2011

Babele

Questa sera mi è arrivata una mail privata, e non ne riferirò dunque i contenuti nel dettaglio. Non che in verità vi si dica molto. E’ semplicemente un messaggio di invito, in cui mia cugina, la mia unica cugina di primo grado, mi accredita alla presentazione della sua prossima collezione autunno inverno.

Ho un dubbio su come ora vengano chiamate le presentazioni delle collezioni di moda. Una volta, negli anni ottanta, le si chiamava semplicemente sfilate, anche se i più stronzetti dicevano alla francese defilè. Negli anni ottanta si era in molti a essere un po' stronzetti, e a seguire i defilè di moda. Chi come me si lisciava i lunghi capelli folti - io utilizzavo un gel chiamato Tenax che somigliava a "blob il fluido mortale", ma aveva lo stesso odore buono di mio nonno quando usciva dal bagno la mattina - e cariava i molari addentando enormi hamburger con la Ketchup, poteva seguire le sfilate di moda unicamente nelle brevi sintesi televisive. Generalmente venivano poste in coda ai telegiornali, poco prima o poco dopo i consigli medici per gli anziani. Non esistevano ancora Sky e le nuove infinite reti tematiche, ma di lì a poco, su Rete 4, sarebbe arrivato un programma che è l'eponimo di ogni successiva decadenza linguistica: "Nonsolomoda".

Delle giacche Armani con le spalline imbottite come oche da paté, già allora ci importava però poco o nulla, ma seguivamo le lunghe falcate di ragazze che portavano nomi come Carol Alt, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Elle McPherson, Carla Bruni, Christie Brinkley o Cindy Crawford, che era la mia preferita ma purtroppo già occupata. Cindy Crawford - il suo piccolo meraviglioso neo al lato della bocca… - era infatti la moglie di Richard Gere, di cui proprio in quei giorni usciva nelle sale Ufficiale gentiluomo, tempestivamente seguito all'enorme successo di American Gigolo. Memorabile la scena in cui il bel prostituto, dopo essersi appeso al soffitto capovolto per stirare le vertebre della schiena, dispiega gli infiniti abiti sopra al letto. Nessuna espressione, nessuna emozione apparente. Solo il principio di un sorrisino ai lati della bocca, tipico in chi ti chiude in faccia a Scala quaranta, irraggiando in un sol colpo le carte sopra al tavolino. Quindi, avendo ben valutato le sottili combinazioni cromatiche tra tessuti, giacche e camicie e cravatte sovrapposte, Richard Gere sceglie l'abito che meglio si accorda al proprio volubilissimo umore. Wow!

Gli anni ottanta stanno in fondo tutti in quella scena, a ripensarci. Il cui riverbero somiglia all'eco del Big Bang che si protende invisibile e silenzioso tra le galassie. E che ci porta, anche adesso, a migliaia di anni luce di distanza dal minuscolo neo di Cindy Crawford, a indossare enormi rose dei venti sopra a orrende felpe cerate, improbabili scarponi arancioni da carpentieri del Kentucky. O a schieraci al muro del narcisismo per la spietata esecuzione di una reflex, che avrebbe spalmato il nostro volto sopra alle pagine di una rivista; e ciò ben prima delle zuffe erotico-estetiche nel salotto della signora Costanzo. Sì, negli anni ottanta l'ho fatto pure io: il fotomodello…

Come in una trasmissione Mediaset poco prima che inizi la televendita, immaginate a questo punto che compaia un cartello con la scritta: "Ridete pure, ridete di brutto". Perché sono proprio io quello con i baffi e l'aria truce nella foto a lato. Io nella foto per il casting di un qualchecosa, chi se lo ricorda più...

In realtà il momento deflagrante le galassie non durò che una manciata di bottoni. E già molto prima che gli stessi Ottanta terminassero - parafrasando Eric Hobsbawm si può dire che gli anni ottanta siano stati il "decennio breve" - sono successe delle cose, altre cose. Tra le varie cose che sono successe, ad esempio, nel 1994 è "sceso in campo" Berlusconi. Ma già in precedenza quelle nuove cose avevano iniziato ad accadere.

La più rilevante tra tutte le cose che sono accadute, e che stanno continuando ad accadere, è che prima ancora che nei linguaggi pubblici e nella politica istituzionale, all'interno delle stesse famiglie, tra padre e figlio, cugino e cugina, ha iniziato a soffiare un vento altrettanto invisibile e silenzioso di quello del Big Bang, che ha sparigliato le camicie che Richard Geere aveva disposto ordinate sopra a un letto. E con i colletti inamidati anche le carte, le istruzioni per l'uso, insieme alle sillabe che hanno reso i discorsi incomprensibili e oscuri.

Ma questo non perché si fosse tornati a usare una lingua tortuosa e involuta come nel decennio precedente, gli anni settanta, con cui le BR compilavano gli odiosi temini dei loro comunicati mortiferi. Piuttosto, forse, perché hanno iniziato ad affermarsi e a legittimarsi culturalmente nuove forme di piacere - di "godimento" - tra loro alternative, attraverso cui l'Italia smetteva di essere sintonizzata sopra al suo tradizionale baricentro erotico ed alimentare. L'Italia prendeva così definitivamente congedo dalla sua antica cultura contadina, ma, anche, dalla stagione della ricostruzione e del boom industriale, le lotte sindacali e le rivendicazioni giovanili . Altri e diversi modi di intendere e godere la vita occupavano quindi il centro della scena. Il piacere diventa la prima preoccupazione, tanto che gli anni ottanta sono stati anche battezzati come il decennio dell'edonismo reganiano. Dando luogo a qualcosa come delle "comunità del gusto", che hanno iniziato a guardarsi con diffidenza e sospetto: il club dello zampone bollito contro quello degli spiluccatori di miglio crudo, non so se mi spiego?

L'effetto è stato molto simile all'implosione di un’enorme Torre di Babele – e gli anni ottanta sono stati il culmine di quella torre - che ha polverizzato le retoriche di questo paese in vernacoli tra loro incomunicanti. Ciò che è rimasto dei linguaggi civili su cui una comunità pone le proprie fragili fondamenta, è una segnaletica del tutto arbitraria e spesso anche reciprocamente incanaglita, che ha eletto il piacere personale a sua instabile bussola. "Noi siamo quelli a cui piacciono le belle donne e non i gay", dice ad esempio, della sua parte, lo stesso Berlusconi. E parla proprio di piacere, afferma il piacere come elemento discriminante, rendendo i risvolti pruriginosi della propria biografia non solo accidentali, ma emblematici di un nuovo corso politico e culturale.

Lo stesso possiamo però affermare tranquillamente anche della sponda contrapposta, con Veltroni che ridiscende dal monte Kennedy con le tavole della legge di un diverso godimento intellettuale. Il cinema americano del dopoguerra, certo jazz soffuso e sofisticato, la canzone e l'arte popolare in un'estensione che allaga e dilegua fino alle figurine Panini. E sono pensieri, o meglio idee, sensazioni che infine attecchiscono e da cui germoglia una nuova percezione della politica. Come tanti minuscoli alberelli conficcati nell'immaginario collettivo, un'agopuntura della coscienza per dirigere il flusso simbolico del corpo sfinito della polis, sempre più simile al plastico miniaturizzato a Porta a porta, sostituendo questi piaceri "light" al nucleo duro e pesante che sta alla base del concetto di classe. Se una classe sociale è tradizionalmente costituita da un gruppo di persone unite sulla base dell'interesse, o da un comune denominatore traumatico (lo sfruttamento dei padroni, ad esempio, la sofferenza del tirare a campare), le nuove comunità politiche appaiono dunque come ribaltamento delle stesse premesse associative, che si fanno realmente leggere come una canzone leggera di Jovanotti. Al punto che anche i tradizionali piaceri gastronomici - pensiamo ad esempio al fenomeno dello Slow Food - diventano elementi generatori di identità prepolitiche, costituendosi quali premesse culturali di un universo di sensibilità ormai definitivamente ludiche, in rapida e accelerata distanza tra di loro. Non si ritorna indietro dopo il Big Bang.

Un fenomeno analogo, come da alcuni sociologi è stato intuito, riguarda però anche tutti gli altri paesi del “blocco occidentale”, come sempre fino agli anni ottanta si diceva. Il berlusconismo, a mio modo di vedere, più che una causa è un epifenomeno di tutto ciò. Se non ci fossero state le sue televisioni a impalcare quei modelli di piacere nel nostro etere sfrigolante, in altri modi, ma soprattutto attraverso altri soggetti e interessi economici, si sarebbero affermati ugualmente. Il piacere è da lui solo reificato in ostensione biografica: Berlusconi è una sorta di "parusia" di tutti i godimenti immaginari.

Meno male che Silvio c'è non significa forse altro che meno male che non viviamo solo di desideri, di soffici rêverie, meno male che i sogni possono diventare realtà, mentre la realtà si alleggerisce delle zavorre traumatiche fino a raggiungere la volubile consistenza di un sogno, senza per questo sparire. E dunque meno male che qualcosa c'è, piuttosto che niente...

Distogliendo per un attimo lo sguardo dal corpo mistico del sovrano, che è il vero testimonial del suo pensiero, e aprendo a caso una pagina dell'Espresso - magari la pagina di una di quelle pubblicità cosiddette "occulte" - ritroviamo però una simbologia che rimanda ai medesimi piaceri. I modelli, gira e rigira, quelli sono. Differenziandosi solo nelle tonalità affettive e cromatiche dei messaggi, che in fondo sono un altro modo per evocare le sottigliezze del gusto. Ma contribuendo, a questo modo paradossale, in cui da una parte ci si nega (criticando Berlusconi e il berlusconismo) e dall'altra ci si offre al piacere più sensuale ma anche astratto delle merci, alla crisi dei linguaggi civili e delle forme di rappresentazione, ossia di titolarità di un'esperienza effettivamente vissuta. Il cui sviluppo, ricordiamolo ancora, è condizione di ogni discorso politico basato sul principio di realtà.

"Il reale è un angolo nel panorama dei possibili", scriveva Baudelaire.

Quando implodono tutti codici di comunione linguistica, c'è dunque più di una ragione per sospettare che sia la stessa realtà a vacillare, le forme non solo simboliche in cui gli uomini fanno concreta esperienza del mondo. Così senza il sostegno di una terra e il bastone di una lingua, non rimane altro che la retorica della guerra, quale estremo scivolamento preverbale tra comunità estetiche contrapposte. Guerra agita o guerra mimata nell'insulto, somatizzata nel disprezzo. Però prima che lo scisma sia compiuto e definitivo, è forse possibile reperire altre forme di mediazione - nei sensi prima ancora che nelle parole -, quasi un provvisorio ponte di barche tra le molte caste babeliche che non riescono più a comunicare. E se non ancora sostitutive di un discorso pubblico compiuto, queste barchette beccheggianti e costituite appunto da un'ancora confusa semiosi del corpo, potrebbero rappresentare un'apertura a quel panorama dei possibili di cui parlava Baudelaire. Qualcosa come una premessa normativa, ecco, l’accordo umano verso un nuovo e diverso alfabeto.

Proverò dunque a ricercare le tracce di questo ipotetico alfabeto – chiamiamola “lingua potenziale” - dal trascurabile evento personale a cui ho già brevemente accennato: la mail di mia cugina. Al punto che quando mi è arrivato l’invito alla sua sfilata, e dopo aver letto attentamente la descrizione degli abiti della collezione, accidenti, ma proprio non ho saputo cosa risponderle, l'immagine del Devoto Oli che si frantuma in tanti coriandoli esplosi. Forse perché nel frattempo non ho più i baffi, come quando mi accordavo al testo degli anni ottanta recitando anche io la mia parte nel coro. E nemmeno tutti quei capelli sopra alla testa, l'odore buono e agrumato del Tenax, che ricordava quello di mio nonno che mi seguiva anche mentre impennavo con il PX, il vespone dai fianchi larghi e accoglienti come quelli di Cindy Crawford. Sono successe troppe cose, troppe cose davvero. O forse nessuna…

Quando esco a pranzo con mio padre, ad esempio. Anche a lui non so mai cosa rispondere. Estrae allora dal loden verde, ben riposto sopra una gruccia del ristorante dove abbiamo appuntamento per pranzo, un pacchettino di ritagli di giornale selezionati appositamente per me, quindi me li porge - meglio: me li dona - cercando la complicità tipica fra lettori (ciascun lettore cerca un “co-lettore”, suggerisce lo scrittore svizzero Peter Bichsel in un piccolo prezioso libricino, intitolato “Il lettore il narrare”). E sono, in genere, articoli pazientemente ritagliati dalla pagine “culturali” di Libero oppure del Giornale, da Panorama. Che lui in seguito appunta indicando data, tema e provenienza, in una calligrafia che gli ho sempre invidiato. E anche in quel caso, come con mia cugina, io continuo a non sapere cosa rispondergli, cosa rispondere a mio padre. Non capisco, cerco di leggere e però mi sfugge la grammatica turgida che sta alla base di quei giornali. Certo il suo gesto è bello, ma…

Troppe cose, sì. O forse nessuna, nessun fatto. Solo un altro gusto.

Negli anni cinquanta, quando l'Italia era appena uscita da una guerra fratricida - il fratello che spara al fratello, il cugino al cugino, altro che sfilate di moda e Ruby Rubacuori- negli anni cinquanta gli italiani si parlavano ancora in una lingua in cui risuonavano gli stessi accenti. Basta guardare un qualsiasi film con Gino Cervi e Fernandel, che hanno saputo dare carne e sangue agli archetipi universali (proprio perché così particolari) di Peppone e Don Camillo. Magnifica sintesi drammaturgica di due Italie diverse, alternative e perfino opposte, ma accordate dentro lo stesso diapason di umana compassione, appetiti alimentari e spacconate da strapaese. Questa consonanza patetico-gastronomica – e viene in mente anche Alberto Sordi con cappelletto e stivali da teddy boys, la tazza di latte freddo colma di corn flakes, da cui dirotta verso i "maccaroni" dimenticati pietosamente sul tavolo da mammà – questa consonanza basica che proviene da un fondo atavico di disincantata empatia, ha assicurato la persistenza e lo sviluppo di una lingua comune tra le persone, anche dentro le incompatibili aspirazioni programmatiche della scena politica di allora: da una parte i fascisti, al centro i democristiani e dell'altra parte i comunisti; con qualche spruzzata liberale e socialista e repubblicana qua e là, tanto per non farci mancare niente.

Eppure erano tutti e davvero italiani. Italiani che, indistintamente, si giravano ai tavolini degli infiniti bar sport al passaggio delle stesse femmine ancheggianti. Quindi riprendevano a bere un Cynar e a scannarsi su Stalin, il Papa e Mussolini. Salvo poi, pochi minuti dopo, zittirsi e girarsi nuovamente al rombo di una Lancia Aurelia sgommante, come quella da cui Gassman strombazza garrulo e spensierato nel Sorpasso di Dino Risi.

Ma se guardiamo alla politica contemporanea, potremmo dire lo stesso? I differenti menu politici esposti dai raffinati chef della destra e della sinistra attuali, si giocano entro lo scarto di poche centinaia di euro di tassazione, nel lenzuolo tirato un poco più alto o più in basso, lasciando sempre scoperti i talloni o le basette. Nella sostanza stanno davvero a un passo (a un passo dalle Sacre Leggi del Mercato), ma nella forma linguistica e simbolica si esprimono attraverso idiomi incomprensibili gli uni dagli altri, riconoscibili solo dentro i confini fonetici della propria tribù. Lingue che non sono più ricomposte dentro una medesima koiné civile, in una lingua franca dello stare assieme.

Ed è forse la stessa parete verbale contro cui incoccio con mia cugina stilista; oltretutto io e lei, ed è più che un sospetto, votiamo per lo stesso caravanserraglio politico, e cioè a sinistra. Quindi il problema è politico solo in un senso molto lato o successivo, e direi piuttosto antropologico. Al punto che di fronte al linguaggio con cui è presentato il suo lavoro sartoriale, continuo a rimanere afono: una parete, realmente. Un muro. Lo stesso quando ascolto gli aggettivi con cui trapunta le rare conversazioni telefoniche:"carinissimo" ad esempio, che è il superlativo di un diminutivo, roba da far impazzire le capacità processuali dei miei neuroni. E ora i miei poveri neuroni sono sottoposti all'incombere minaccioso della sua mail, in cui con gentilezza perentoria mi invita a un'imminente sfilata di moda. Io e la mia famiglia abbiamo perso le parole per comunicare, ecco.

Dopo una guerra civile con bombe e fucili, mi viene così da pensare, in questo paese è scoppiata una guerra meno sanguinosa ma ugualmente drammatica: la guerra civile dei linguaggi. Che parte dal tintinnio degli happy hour giù giù fin dentro al grembo opaco e furibondo delle parole.

Un esempio di dichiarazione di guerra è il modo in cui Vogue Italia definisce gli abiti di mia cugina, che per quella rivista ovviamente autorevole - titolo che ormai non si nega più a nessuno - sono "creazioni sartoriali post atomiche". Proseguendo, all’interno dello stesso articolo, a questo modo: "Nella collezione 2010\2011 si contendono la scena i drappeggi e la tendenza sartoriale: abiti semplici con complessità couture, dove il lusso è nonchalante e si armonizza con tagli innovativi. In una liason tra moda, sostenibilità e tecnologia, i tessuti hanno nomi da fantascienza".

Esiste una foto bellissima scattata forse da mio zio, in cui io e mia cugina ci troviamo al Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano. Millenovecentosettantatré o settantaquattro, il tempo deve essere quello. Alle nostre spalle - la foto è verticale e noi ne siamo al centro, ripresi a figura intera - è intuibile la sagoma massiccia di una vecchia locomotiva a vapore, di cui scorgiamo solo le grandi ruote motrici unite dagli assali. Mia cugina Alessandra indossa una cuffietta di pelo scuro, un cappotto striminzito, che le arriva appena sopra le ginocchia, da cui proseguono due gambette esili e dritte infilate dentro a calzini bianchi e leggeri, che stridono con la cuffia per "temperatura percepita". Io le sono coetaneo ma di statura superiore, e forse per ricercare una maggiore intimità fisica tengo le gambe incrociate e flesse, faccio un po' lo scemo come scusa per adeguarmi alla sua altezza. Il mio cappotto è appena più lungo e pesante, sembrerebbe a doppio petto. Faccio decisamente lo scemo, sì, nelle forme tipiche di un innamorato felice, che appoggia il capo al capo della sua bella - ora che osservo meglio mi accorgo che portiamo entrambi la frangetta - mentre con la mano l'abbraccia e la protegge.

Non vorrei pigiare troppo sui facili accordi sentimentali, mimare la voce tremula di un cantante da piano bar, ma questa immagine a me sembra possedere qualcosa di struggente, o meglio ancora di “originario”. Una confidenza umana che scaturisce dalla forza viva del corpo, da un riconoscimento immediato che non ha bisogno d'altro se non dello specchio chiaro della pelle – forse è la nozione arcaica di parentela, che discende da partorire -, prima che possano manifestarsi le parole di un discorso vero e compiuto. E' da dal testo nudo e crudo di questa fotografia, la semplice immagine di due bimbi colti in momento di gaia spensieratezza, che vorrei allora ripartire per cercare di rispondere alla mail di una giovane donna che si sta affermando nel mondo della moda, nella speranza di acciuffare a questo modo la ragioni che altrimenti mi sfuggono. Come se a parlare fossero le nostre sagome di un tempo, da cui scaturiscono le parole come dentro la bolla dei fumetti.

“Cara Alessandra” dice dunque il bambino con i denti sporgenti e il cappottino con il doppio petto, “io non verrò alla sfilata della tua collezione autunno inverno. Però ti assicuro che ce ne ho messa di buona volontà, ma proprio non mi riesco a ficcare in testa cosa cavolo vuol dire una creazione sartoriale post atomica, o come si fa ad avere una liason tra moda, sostenibilità e tecnologia, quando io pensavo che stavamo parlando solo di vestiti. O forse è che a scuola non ce le hanno ancora insegnate, queste parole qui. Il prossimo anno ce lo spiegherà probabilmente la maestra. Nel frattempo ti giuro che ci ho pensato a lungo, anche mentre giocavo con quelle fialette gialle che mi hai regalato tu. Poi le ho scagliate in terra nello spogliatoio delle bambine e sono scappato via, assicurandomi prima che si fossero spiaccicate in mille pezzi. Ci ho pensato ma adesso non riesco e non posso e non voglio capire, come può esistere una cosa che si chiama lusso nonchalante. O magari è il mio gusto, tutto qui. Il mio gusto a preferire parole come cazzarola e a non essere nonchalante. Eppure io penso che anche i bambini piccoli come noi - stiamo imparando solo ora a scrivere, io mi macchio sempre con l'inchiostro - io penso che c'è un momento, un punto in cui anche i bambini possono capire. Come quando rientriamo sudati dall’intervallo, o nel finale di un film di quel regista, sai quello che piace ai nostri papà e che prende sempre le attrici con le mammelle grosse, un momento, un punto, un eppure…"

…eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…

Mica tanto, solo un po’ di silenzio. Ed era un Benigni più lunare che mai, a sussurrarlo ne La voce della luna di Federico Fellini. Quel sacrosanto e urgente silenzio che forse riuscirebbe a farmi capire anche cosa vuole comunicarmi mio padre, con i suoi articoletti, ben piegati e rubricati, ritagliati dal fervore linguistico di Libero o il Giornale. E lo so - l'ho imparato - che è ancora e semplicemente il suo gusto, la forma che il piacere ha preso dentro la biografia di mio padre. Ma a me quel suo gusto non piace e non lo capisco. E gusto evidentemente anche quello di una giovane donna con capacità e talento, gusto linguistico a me totalmente incomprensibile, niente più che gusto, quando mia cugina si produce in creazioni sartoriali post atomiche. Assegnandogli poi dei nomi di fantascienza, ma così complessi di couture, davvero troppo complessi… perché si possa umanamente comprendere cosa accidenti sia un lusso, un lusso nonchalante!?

Un po' di silenzio, Alessandra. Dimentichiamoci allora anche dei nostri gusti e facciamo un po' di silenzio. E lo chiedo e lo offro anche a te, papà. Silenzio e bambini che stanno abbracciati di fronte a un'enorme locomotiva, prima che la caldaia vada in pressione e lo sbuffo nero se li porti via.

Ma dopo qualche minuto di silenzio, proviamo a ridare voce al nostro Castorino, ancora molti anni in là – un romanzo di fantascienza, in pratica – dal pensare anche solo lontanamente di poter diventare un giorno un fotomodello. Che dal cuore pulsante degli anni ottanta sfila con lusso, con lusso... sì, insomma, quella parola lì:

“Cara Alessandra, ora che sono nuovamente vicino alla tua cuffietta di pelo morbido e scuro, sento qualcosa, la sento con il naso, e quella cosa io penso che è il tuo odore quella cosa che sento. Ma non somiglia per niente alle fialette che ho rotto nello spogliatoio delle bambine, ho fatto come mi avevi detto tu. Poi però ho dato la colpa all'Assunta, ho detto che era stata l’Assunta a mollare una scureggia, e tutti abbiamo riso forte. Perché è un odore buono, invece il tuo. Ricorda quello che ha nostro nonno quando esce dal bagno con la canottiera azzurra, e se ci vede che lo spiamo ci insegue gridando sangue di Budda, sangue di Budda, così per farci sorridere un po’ mentre la nonna gli dice di andarsi a rivestire. Ed è anche l’odore del mio papà, lo sai Alessandra? Un odore un po’ di limone e un po' di lavanda e un po' di erba che non ha fretta di diventare fieno, a me sembra. Ma che ne so poi io del nome degli odori... Perché gli odori si sentono, mica si parlano."

E piano piano, dicendo queste parole, il fumetto dilegua dal capo reclinato del Castorino, non si riescono più a leggere le sue lettere, mentre l'immagine torna muta e sorridente. Silenziosa. Tanto che forse dovremmo ricominciare a costruire la nostra torre proprio da lì: da quella fotografia che ci ritrae, come dovrebbe essere sempre una famiglia e forse anche un paese. Attento, silenzio e attento al proprio odore. E questo te lo dico adesso, Alessandra, che abbiamo quarantaquattro anni suonati e molti capelli dimenticati in chissà quali intervalli, almeno io. Però ora ho i denti dritti come le pareti della casa della Barbie, e tu, come sognavi, sei diventata una stilista brava e affermata. Io invece a prendere i bisonti al lazo non l'ho mica ancora imparato...

Silenzio e odore, dai, proviamoci ancora per una volta?

E chissà che poi non tornino anche le parole belle e semplici di un tempo, come nelle imprecazioni del nonno e nelle storie dello zio Cesare, quelle che ci raccontava la nonna prima di addormentarci e di cui era protagonista lei bambina - la nonna bambina, che ossimoro delicato... - in un vecchio casale dove c'era sempre e solo nebbia. Non ce l'ha mai raccontato, ora che ci penso, la nonna non ce l'ha mai rivelato dove si trovava quel posto di nebbia e bambini. Ma adesso forse lo intuisco e mi viene un po' da piangere... Storie dove i vestiti erano vestiti, servivano a ricoprire i bambini quando avevano freddo, per colpa della nebbia, e non erano atomici e "nonchalanti". Erano semplicemente vestiti. E poi silenzio, ancora. Silenzio e odore e nebbia.

Però promettimi che poi non rompi una di quelle tue fialette gialle e dici che sono stato io, mentre sono girato a guardare sfilare i tuoi abiti drappeggiati. Che sicuramente saranno bellissimi anche quelli, quando la nebbia si diraderà e noi potremmo finalmente vedere, ascoltare. E magari sarà lo stesso giorno in cui questo paese ritroverà le parole per parlare. Per parlarci.

lunedì 21 febbraio 2011

All'Autogrill, o sull'eterno ritorno dell'identico


(Continua la mia personale rivisitazione della storia della filosofia occidentale... Dopo Wittgenstein, è così il turno di Nietzsche. Con la teoria dell'eterno ritorno che finalmente si mostra - dopo anni in cui ci ho cocciato come una mosca sul vetro, in lontani e pigri pomeriggi di studio - in un Autogrill sull'autostrada. Costruzioni sempre uguali a se stesse, rassicuranti: somigliano vagamente ai piccoli grani del rosario, da accompagnare all'instancabile vocazione delle medesime sillabe, che si fanno preghiera forse proprio in virtù di tale ripetizione. E introducendo così il sospetto che la modernità, al suo fondo simbolico che non è per nulla segreto, ma pienamente manifesto, non sia essenzialmente altro che questa rassicurante litania dell'identico. Ma a differenza di quando Nietzsche elaborava la sua ipotesi ricorsiva, ora ciò avviene in forme non più - o non solo - cronologiche, quanto piuttosto orizzontali. Tanto che l'orizzonte, come nella mistica, finisce col soppiantare la temporalità verticale, instaurando una sorta di dominio dell'Unico, di punto zero della coscienza che coincide con il paesaggio. E' davvero una preghiera, quindi. Con l'Autogrill quale tempio maestoso dell'identità realizzata nel molteplice, correlativo visibile di un ordine implicato che è solo un disco rotto: la puntina sobbalza, arretra, salta e risalta ancora, balbettando all'infinito la stessa ipnotica strofa. La modernità non smette di accadere, già, perché a ben vedere è già da sempre accaduta. E dunque, può solo ritornare...)


All'Autogrill mi piace di più
(la caciotta affumicata,
il panino Fattoria, corone
di cioccolato e viole e anche tu
mi piaci di più, con il soldino
in mano per la sfacciata toilette).
Acqua e olio tutto a posto?
Sì grazie, e ripartiamo allegri
canticchiando gli Alunni del sole;
ma subito ti affacci a me
e sulla spalla dormi
fino al prossimo uguale Autogrill.
Lo capisci, ora, perché sorrido
quando mi parli di Nietzsche?


(ps - anche questa poesia è stata scritta intorno allo scavallare del secolo)