mercoledì 29 dicembre 2010

Lettera aperta a Beppe Sebaste



Caro Beppe,
tu ed io non ci conosciamo di persona, ma per quella confidenza immaginaria che nasce dalla prolungata intimità con le pagine di un libro che hai molto amato, ti sto scrivendo una lettera aperta dal tono forse un po' troppo confidenziale, appunto.
Il libro in questione è Porte senza porta, che possiedo in una vecchia stropicciata edizione Feltrinelli. Ora ho appena iniziato a rileggerlo nella sua versione aggiornata (“rewind”) e una cosa, subito, mi ha colpito ascoltando il cd allegato al volume. Vorrei così parlartene senza pensarci troppo su; ancora a cavallo della bestia, come si dice. E' quando tu confidi della difficoltà di incrociare degli autentici maestri dentro la professione in cui forse più ti riconosci, quella di scrittore o in generale di artista, tanto da chiamare “fratelli maggiori” alcuni tuoi compagni di strada.
Vero, è una considerazione che anche a me è capitato fare di frequente. Imbarazzante la distanza che si apre tra le pagine di un libro di Aldo Busi, mettiamo, e le sue comparsate televisive. E come è riconoscibile lo sconforto di Paolo Villaggio che, dopo un intensa e asimmetrica amicizia con Federico Fellini – è lo stesso Villaggio a chiamarlo sempre maestro –, così conclude: “Fellini era un uomo che non aveva niente da darti.”
Ma come in tutte le intuizioni felici, subito vengono in mente casi particolari che le smentiscono e sembrano farti no no con il ditino, come le teste di certi cagnetti di pezza che venivano incollati sul lunotto posteriore delle automobili, sembrano passati un milione di anni. Marco Lodoli ad esempio e per restare all'attualità italiana. O per contiguità geografica penso a Eraldo Affinati e al suo quasi omonimo, non solo per l'onomastica, Edoardo Albinati. Beh, io trovo questi scrittori degli splendidi maestri, non sei d'accordo con me, Beppe?
Eppure eppure... al fondo hai proprio ragione tu: le qualità necessarie al magistero dell'esperienza, diciamo così con una formula vagamente altisonante, non hanno alcuna omogeneità con il talento artistico, e a maggior ragione con la sua espressione. Per riprendere quanto proponi già dall'epigrafe del tuo libro, maestro è infatti "colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa”.
Verrebbe da aggiungere, in un tentativo ironico, ma non troppo, di collocare prossemicamente tale affermazione nello spazio, che maestro è chi si rivolge a un Tu nella convinzione che possa tradursi in un Egli. Meglio ancora: maestro è chi rivolgendosi a un Tu rotolante nello spazio (“like a rolling stone”) per effetto della propria interferenza crea le condizioni gravitazionali affinché Tu possa diventare Egli; Egli sarebbe cioè colui che cessa di rotolare e ritorna alla stabilità domestica. Tanto che potremmo a questo punto anche invertire i termini pronominali, visto che nel gesto del rincasare è presente l'intuizione che Egli fosse, già da sempre, Tu; almeno a un livello narrativo potenziale.
Jodorowsky sintetizza questo aspetto del magistero con il concetto di “io essenziale”. Ciò che noi abbiamo chiamato Egli, in altre parole, non sarebbe altro che l'identità più genuina dell'allievo, implicata al suo interno come vocazione individuale che può manifestarsi solo nel momento in cui prende consapevolezza di sé. Ma ciò può avvenire solo attraverso una sorta di processo di deprogrammazione, di cui tu Beppe parli diffusamente, che potremmo interpretare anche come ripulitura dalle incrostazioni sociologiche e dalle scorie culturali, di cui era inizialmente gravata e dunque anche falsificata l'identità iniziale o presunta. Così da sospettare che l'interlocutore del maestro – il Tu a cui si rivolge - fosse già da subito tale essenza sopita. Un'essenza, se ho ben inteso, che si attualizza solamente nell'interazione umana con il maestro, e non va perciò interpretata come cosa in sé già costituita, ma appunto come racconto che raccontandosi accade.
Bene, se, per approssimazione, mi sono avvicinato allo schema cognitivo della dialettica maestro allievo come da te descritta, provo ad avventurarmi in uno schema speculare che racchiuda quella che si sviluppa tra artista e pubblico. Che io mi sento così di proporre: artista, “vero artista”, è colui che, parlando a un Voi più o meno definito, trasforma il Voi in Loro. Non c'è infatti Tu per l'artista, ma solo una pluralità umana genericamente approcciata come identità culturale e civile di una comunità realizzata su base storica e geografica – ed è molto importante tale aspetto di attualità crono-geografica, specie nell'idea moderna di romanzo – che grazie anche alla relazione con la voce dei propri artisti è in grado di precisarsi e riconoscersi, e cioè ancora una volta di autotrascendersi attraverso il processo della narrazione.
Sì, certo, il personaggio narrativo appare individualizzato - e in effetti lo è, almeno negli esisti più riusciti dell'attività letteraria - ma non sulla base di sue presunte qualità essenziali, quanto nel reagire all'insinuarsi in lui delle voci circostanti, al rifiuto dei valori prevalenti nella collettività o nella famiglia di origine, che avverte come indebiti. Lo schema romanzesco, con una spregiudicata semplificazione, potrebbe essere ricondotto al tentativo del personaggio di sottrarsi alle influenze esterne, che cercano di conformarlo a un modello precostituito e impersonale, spesso anche ingiusto e violento. Potremmo insomma sospettare che la scaturigine romanzesca stia nel mito di Antigone che si oppone a Creonte.
Ma stiamo appunto parlando di opposizione, di un effetto che potremmo definire "di ritorno". E' come se il personaggio risultasse autentico solo nel gesto di rifiutare il falso. Si rifiuta di diventare ciò che non è, ecco. Ma sull'essenza cava della soggettività la narrativa, quanto le arti figurative e cinematografiche, sembrano afasiche, incapaci di pronunciare una parola realmente decisiva. Forse perché l'opposto del falso non coincide necessariamente col vero, e anzi finisce con il mantenere memoria dell'inautenticità d'origine da cui si è contro-definito, come intuì Nietzsche attraverso l'icastica formulazione di "malattia delle catene"; nel moderno linguaggio psicanalitico potremmo forse tradurre con formazione reattiva. Ciò che ci può dunque indicare l'espressione artistica, al suo meglio, è semplicemente che si deve andare avanti, continuare, proseguendo a dire l'indicibile e a mostrare l'invisibile, così come conclude Beckett la sua trilogia. Continuare cioè a confrontarsi con l'invadenza omologanate del noto alla ricerca di qualcosa di sconosciuto e di proprio, di qualcos'altro...
A me sembra così che il nocciolo della relazione tra artista e pubblico stia in questo aggettivo indefinito: altro. Al punto di reificarlo in sostantivo, come fa lo psicanalista Jacques Lacan quando sintetizza la formula di “Grande Altro”. A significare l'apparato di conoscenze, simboli, pregiudizi, timori, interessi economici e politici e sessuali che vanno a definire lo sfondo culturale inconscio di ogni socialità organizzata, ossia lo schema implicito dei suoi poteri. Il vero interlocutore dell'arte - il Creonte a cui si oppone - non sarà allora proprio il potere, inteso come quel Grande Altro che, interferendo subliminalmente con le nostre vite, contribuisce a determinarle?
Arte come interferenza di ritorno al potere simbolico, dunque. Che può essere critica quanto apologetica, naturalmente: l'arte non è necessariamente contro, ma direi piuttosto di contrasto, alla maniera dei reagenti utilizzati nell'analisi di laboratorio, che portano in evidenza e dunque favoriscono la dinamica delle forze in campo. Ciò significa che l'arte, per riprendere un'altra bella immagine dal tuo libro suggerita nell'intervista al filosofo Aldo Gargani, come nell'incontro da tra due onde di frequenza può entrare in fase con il potere, potenziandolo, quanto in una interferenza distruttiva che ne favorisce una diversa ricomposizione. In ogni caso l'arte, che ancora una volta dobbiamo distinguere dal mero esercizio calligrafico, non scorre mai neutrale come un ruscello accanto al grande fiume del potere, tanto da concludere che un gesto artistico realizzato è quello che riesce a rendere l'apparato simbolico del potere, anche solo di un piccolo poco, altro da ciò che è, ovvero a spostarne il limite. Ma per quanto venga di continuo riposizionato, il limite, a questo modo, viene anche confermato.
L'arte è insomma lo strumento che gli uomini si sono dati per rendere altro il Grande Altro, e con ciò garantirne l'esistenza. Mica male, come sfida!
Istituita la nostra modesta proposta ermeneutica, almeno nella sua cornice concettuale, non ci rimane che cogliere alcuni effetti derivati, andando così forse a rischiarare anche la tua originaria e felice intuizione: “quasi mai gli scrittori sono dei maestri”, pronuncia la voce bassa e profonda di Beppe Sebaste dalla casse acustiche della mia autoradio. E ciò dipende probabilmente dal fatto che il risveglio di quell'identità essenziale che un maestro provoca nel momento in cui si rivolge al Tu dell'allievo, consapevole o meno di esserlo, allievo ma anche maestro, è un effetto di rimozione cosciente proprio di quell'apparato simbolico e culturale che l'arte contribuisce a ridefinire: il Grande Altro del potere, di ogni potere, che è all'origine una semplice legislazione del dire e del significare, una macchina mitologica con le pale ancora impastate di sogno e d'argilla.
Se l'artista dunque mette, pone, reintegra e definisce criticamente, in questo simile al vasaio, il maestro spirituale toglie, alleggerisce, smantella come lo scultore. E ciò anche quando formalmente sia impegnato a trasmettere un insegnamento codificato, ossia ad "educare insegnando". La dimensione dell'autentico più volte richiamata nel volume, starebbe dunque nell'autenticità del possibile, inteso come uno spazio vuoto da ricolmare con un'intenzione spogliata da ogni incrostazione spuria.
Vengono alla mente i potentissimi versi contenuti in una poesia di Milo de Angelis, che riferendosi a un gruppo di medici chirurghi incrociati in un corridoio d'ospedale, tra lo scalpicciare degli zoccoli e l'odore penetrante dell'alcol tra le bende, mescolato alle risate e al cazzeggio di chi ancora una volta l'ha fatta franca nella partita con quel diverso Grande Altro che è la morte, conclude con queste disarmate parole: “... se ti togliamo quel che non è tuo \ non ti rimane niente”.
Ecco, il niente, per un artista, è inconcepibile! L'arte rifiuta la morte, intesa come annichilimento, come morte che immortala, bloccandole, le possibilità drammaturgiche di una storia, e afferma la vita come necessità della forma di forgiarsi in altre forme. E ciò anche al prezzo di modellare una materia che in effetti "non è tua", che non sei tu ma il riflesso che il mondo, l'Altro, il differente, ha su di te. Con l'unica eccezione della poesia, non a caso spesso accostata, anche nel tuo bellissimo libro, al magistero spirituale. La fiducia del narratore nell'epos sociale, nelle possibilità espressive e semantiche di una lingua e di un apparato di segni condiviso, lo portano invece al bisogno di uno scambio, anche conflittuale, appunto, come abbiamo visto, con le strutture significanti del potere. Ma mai a mettere in discussione che ci sia un potere – un potere Altro – e che questo Altro abbia una qualche funzione determinante le vite individuali. L'artista crede insomma in una polis, in una civitas e soprattutto in una lex, anche quando apparentemente vi irride posando in una gestualità eccentrica e autoriferita.
Al contrario un maestro esercita il suo magistero più prezioso nel momento in cui ricorda che, se ti togliamo quel che non è tuo, non ti rimane niente. Perché è proprio sulle fondazioni di quel niente che la pratica avviene, e che l'allievo diventa finalmente quello che è.



lunedì 13 dicembre 2010

Destra e Sinistra, o sul ventre cavo dei gazometri


Destra, sinistra, accidenti... A furia di girarli e rigirarli come una matita in attesa di una buona idea, i concetti geometrico-spaziali sembrano frantumarsi tra le dita, esplosi e decomposti in tante minuscole schegge di legno e grafite. O forse sono i concetti tout court, a rivelarsi inadeguati a illuminare la nuova scena politica. E' come se all'occhio dell'osservatore si presentassero ormai solo immagini decomposte, frante, e il suo compito quello di ricomporle dentro il puzzle di un quadro astratto. Un Lego, meglio, un meccano, dove dagli stessi materiali si può pervenire a infinite forme.
Esperienza che ha nella narrativa, in quanto gesto discrezionale nello stabilire rapporti significativi tra le cose, il suo riferimento più immediato. Non più la Storia, con i suoi legami certi di causa ed effetto, o la scienza politica, ma politica come arte, come costruzione del caso e della sensibilità. E sono allora le storie, a occupare la piazza deserta della polis.
In fondo ciò che si cerca da una buona politica è l'applicazione concreta, all'interno della vita di una comunità più o meno strutturata, di categorie come bello, buono e soprattutto giusto. Nozioni anch'esse sgretolate dal rullo compressore della decostruzione novecentesca. Lasciando al suolo solo macerie, frammenti di un racconto possibile, eventuale o addirittura fantastico, impossibile. Scriveva Lacan: “l'impossibile a volte accade”.
Provo allora a chinarmi sulle mie, di macerie, e a cavarne qualcosa come una minima storia politica, forse un apologo.
Io abito in un quartiere della periferia nord di Milano. Si chiama Bovisa, il mio quartiere. In tempi lontani ha preso il suo nome dall'attività agricola e di allevamento bovino che vi si svolgeva. Una zona poco edificata e molto nebbiosa, qualche prospera cascina, pascoli verdi e saporiti. Poi, nei primi anni del secolo scorso e con più forza nel secondo dopoguerra, Bovisa si è trasformata in area artigianale e di piccola e media industria; con una forte prevalenza del settore chimico. Ha dunque profondamente risentito, a partire dai primi anni settanta, della crisi industriale ed energetica, che ha portato alla ristrutturazione e alla Milano da bere degli anni ottanta.
Un quartiere bovino senza più buoi, ecco cosa rimaneva della Bovisa. Ma anche senza più fabbriche, e con laboratori artigianali che preferivano ingrandirsi nella più accogliente Brianza. Lo scheletro scintillante e vuoto dell'impianto di refrigerazione dei gazometri è forse l'emblema di tutto ciò. Come l'enorme colonna vertebrale di un Tirannossaurus rex, a ricordarci che è esistito un tempo diverso e remoto. Non necessariamente migliore.
Infine l'arrivo del Politecnico, una scommessa urbanistica coraggiosa e dall'esito incerto, con i muscolosi dipartimenti di ingegneria, architettura e design, che istallandosi nei vecchi opifici abbandonati hanno saputo risollevare la schiena del vecchio sauro, riconnotando il quartiere in funzione studentesca e di piccola borghesia; una zona dove fare buoni affari, per gli immobiliaristi che vi scorrazzano con scarpe lustre dalla punta rettangolare. C'è chi addirittura parla di futura silicon valley milanese.
Non so se cedendo alla lusinga di quelle scarpe ortogonali e imbarazzanti o a una periferia ruvida e confusa, che non ha ancora deciso cosa fare\diventare da grande, eccomi dunque a Bovisa, pure io. Con il mio appartamento da ricco e il mio portafoglio cronicamente vuoto, tale quale al ventre cavo dei gazometri.
Per mangiare, a mezzogiorno, funziona così. Più ti avvicini a uno dei numerosi edifici dell'università, più aumenta, proporzionalmente, anche l'incidenza di piccoli bar, trattorie, tavole calde dove pranzare con pochi spiccioli. Il mio preferito si chiama Speranza, chiaramente per il nome. Ma anche per il magnifico minestrone, nella doppia versione con o senza riso, cucinato dall'anziana madre di Paolino, il titolare del locale. Primo, secondo e contorno fanno sette euro e cinquanta. Che diventano nove se ordini anche una caraffetta di vino rosso. Io per me lo prendo, voi fate come vi pare.
Un altro posto dove vado spesso è la Montagnetta bis, da cui si deduce una primogenitura disseminata da qualche altra parte, sorta di archetipo platonico a cui tutte le Montagnette seguenti possano ispirarsi. Agli originali io ho comunque sempre preferito le copie, come per i Rolex o gli Adriani Celentani, di cui ogni bar Sport contempla una versione da esportare ai concorsi estivi per imitatori. Insomma, vado alla Montagnetta bis. Dove una volta ho mangiato: un piatto di spaghetti alle cozze seguito da pesce spada alla piastra con contorno di patate al forno al rosmarino; ma anche una porzione di spinaci saltati con aglio, olio e peperoncino, quale doppio contorno a cui avevo “diritto”; il tutto condito dal solito quartino di vino rosso; caffè; correzione di grappa. Quando sono andato alla cassa per pagare, sul mio scontrino ci stava scritto nell'angolino in basso a destra: otto euro.
Con otto euro, giuro, se io faccio la spesa riesco a comprarmi al massimo quattro budini di soya all'aroma di vaniglia; forse perché vado in posti dove vendono quei cibi da stronzi tipo budino di soya alla vaniglia, per ipocondriaci alimentari e gente priva di immaginazione gastronomica come me. In ogni caso: pesce spada, cozze, otto euro... Mica l'ho ancora capito come fanno.
Per penetrare dentro i segreti della loro economia domestica, ho così iniziato a fargli qualche domanda, dilazionata nel tempo e quando non stanno sparecchiando o servendo ai tavoli dove si accalcano gli studenti del Politecnico. Non che siamo proprio amici ma si è creato un buon rapporto, tra me e quelli della Montagnetta (la Montagnetta bis, sia chiaro!).
Sono quasi tutti egiziani e imparentati tra di loro, i montanardi. Il più anziano, come sempre succede, è arrivato per primo una quindicina di anni fa, e risalendo la scala dei lavori più umili deve essere riuscito ad aprire la Montagnetta; parlo di quella originale, l'archetipo gastronomico. Quindi sono arrivati tutti gli altri, che con il parente iniziale – “l'archetipo antropologico”, diciamo così per estensione – condividono poche certezze. La prima è il tifo incondizionato per la squadra del Milan. Il secondo, la passione politica per Berlusconi. E pur intuendo un nesso tra le due cose, non ho ancora capito quale viene prima e quale dopo, la causa e l'effetto. Per la costruzione della mia storia bastano però questi soli dettagli, di cui prendo atto e me li segno da qualche parte: otto euro; immigrati egiziani; Berlusconi; Milan. Prima o poi, vedrete, ci torneranno utili.
Quindi faccio un'ellisse spaziale e temporale, raggiungendo un altro locale presente nella zona. Si chiama Scighera, equivalente milanese per nebbia, ed è un circolo Arci piuttosto noto e attivo da queste parti, distinguendosi nell'organizzazione di numerose e belle iniziative serali. Si tratta perlopiù di concerti, ma anche teatro, conferenze, presentazioni letterarie o serate a tema di gastronomia regionale; oltre che il consueto menu diurno per studenti e lavoratori.
Una volta ci sono andato anche io, per pranzare alla Scighera. Ma osservando la lavagnetta in cui è esposta la lista dei piatti del giorno con i relativi costi, mi sono accorto che se mi fossi fermato a mangiare non me la sarei cavata con meno di quindici euro; anche più di venti, per un trancio di pesce spada e tutto il ben di dio che ti danno gli egiziani. Così sono tornato indietro e sono andato da Montagnetta bis, o da Speranza, ora non ricordo.
Con l'andar dei giorni si è però creato un rapporto di cordialità e simpatia anche con il personale della Scighera, che immagino ovviamente di sinistra; insomma, non so per quale squadra tifino, ma di certo non votano Berlusconi. Dovendo organizzare una serie di seminari sullo studio comparato delle principali religioni e tradizioni spirituali – sarebbe forse più giusto parlare di “fenomenologia del sacro”, ma non facciamola troppo lunga – ed essendo venuta meno la sala in cui il filosofo Gianfranco Bertagni avrebbe dovuto tenere le lezioni, mi è venuto in mente di domandare a quello che a me appariva come il capo della baracca se mi affittava, per un paio di domeniche o poco più, l'ampia sala che si allunga dietro una piccola porta alla Scighera.
La sua risposta è stata: “Da noi, religioni... Stai scherzando, vero?”
“In che senso?”, ribatto io come quando tutti ridono dopo una barzelletta, di cui tu non hai capito il finale.
“Guarda, se vuoi posso darti una mano a trovare un locale dove tenere i tuoi corsi”, risponde questo uomo alto e con la barba, gli occhi rapidi e svegli dietro la montatura spessa degli occhiali; un uomo o forse un ragazzo che come me dimostra probabilmente più anni di quelli che ha; una quarantina forse appena scavallata, così a naso. “Ecco, prova al circolino nella parallela a via Candiani”, continua lui, “forse loro possono affittarti la sala. Ma noi, religioni, proprio non se ne parla. Mi dispiace”.
E così, negli appunti per la mia storia, io mi segno: circolo Arci; sinistra; religioni; “proprio non se ne parla”. Ma anche: primo, secondo, contorno: euro sedici. Il doppio esatto della Montagnetta bis. Ma in fondo anche “mi dispiace”, perché era un uomo o forse un ragazzo gentile.
Provando ora a tirare qualche somma (narrativa) da questi eventi completamente slegati tra loro, con una certa sorpresa mi accorgo che un soggetto, per quanto ricreativo e non direttamente politico, ma che comunque si richiama ai valori e alla storia della sinistra, si rivolge a una clientela che non è ciò che un tempo si sarebbe chiamata “base popolare”. Io, ad esempio, che pure possiedo una casa da ricco e ingurgito cibi da stronzi come il budino di soya alla vaniglia, non posso permettermi di pranzare alla Scighera, che ha prezzi doppi a quelli che si possono trovare in quasi tutte le trattorie che trapuntano il quartiere.
Eppure il circolo Arci della Scighera è effettivamente di sinistra, e me ne accorgo osservando con quale impeto viene difeso un tema che, fino a pochi attimi prima, io avrei giudicato anacronistico e del tutto estraneo alla scena politica odierna, quale è appunto l'idiosincrasia curiale che deriva da una convinzione di assoluta laicità (ma sarebbe forse più giusto dire "casualità") della condizione umana; che, tra parentesi, è cosa diversa dall'indipendenza religiosa a cui sono tenute le istituzioni democratiche. Una posizione che nella storia dei movimenti di ispirazione anarchica o marxista ha portato a una viscerale idiosincrasia per qualsiasi riflessione si insinui sopra a tale apodittica certezza: oppio di popoli, le religioni. Punto e a capo e non se ne parli più.
Ma se seguiamo il filo logico dei pensieri, è ugualmente doveroso riconoscere che anche gli egiziani della Montagnetta bis sono effettivamente di destra – votano a destra, hanno sogni e aspirazioni di destra, alle pareti stanno aggrappati televisori che inondano la sala di programmi e telegiornali di destra – nonostante i prezzi popolari della loro cucina, e le pezze al culo con cui probabilmente sono arrivati alla rincorsa della loro legittima fettina di modernità.
Ed è così che la nostra storia è tenuta a una svolta, un'agnizione. Non è vero, non lo è più, almeno, che i termini destra e sinistra qualificano dei comportamenti, una prassi non necessariamente morale ma comunque effettiva – che ha ricadute in ciò che chiamiamo realtà – quanto a me pare un'estetica, uno stile. Esiste cioè qualcosa come una coniugazione solo apparentemente contrapposta del gusto, o se vogliamo precisare psicologicamente il concetto io direi che si tratta del "principio di piacere". Tanto che questa cosa, questo piacere, può essere di destra in base a un semplice accordo, perlopiù implicito, attorno a una figurazione aggiornata del “godimento”, come direbbe ancora Lacan. O come sua alternativa, un godimento e un piacere formalmente di sinistra (ma visto che la sinistra possiede questa tendenza a dividersi e disperdersi, ne ricaviamo più godimenti, più tribù del gusto).
Potremmo perfino definirla una “moda”. La moda di sinistra è incompatibile con l'estetica religiosa, gli incensi, l'iconografia storica del sacro per il semplice fatto che siamo abituati a vederci allo specchio in questo modo, ereditato dalle fotografie seppiate di vecchi anarchici mangiapreti. Stiamo insomma facendo una citazione, come Giorgio Armani quando citava il taglio delle giacche dei gangster degli anni venti. Gli eventuali contenuti religiosi o spirituali prescindono totalmente da questo giudizio di superficie, ma non necessariamente superficiale. Essere al mondo, nel mondo, significa infatti e prima di tutto assumere una forma, una postura estetica. E i termini destra e sinistra fotografano ormai unicamente tale forma.
E' come se la trivella dell'esperienza si fosse arrestata alla scorza degli eventi, che vengono riconfigurati nel linguaggio non per i loro effetti, la loro presa sul reale e sulla storia, ma incisi sopra la tavolozza di una meta-storia che coincide perfettamente con i codici della narrazione: una sorta di tautologia simbolica, di ornamento lessicale. Se togliamo così dall'orizzonte della sinistra radicale i suoi oggetti concreti di rifermento – il popolo, la rivoluzione proletaria e la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio – otteniamo un'impressionante implosione semantica, che viene colmata attraverso l'estetizzazione della propria vicenda politica. Non c'è nemmeno più bisogno di un Andy Warhol, per rendere del tutto afasica l'icona di Che Guevara che occhieggia dalla t-shirt stropicciata in un centro sociale. Pura moda.
Ma la stessa cosa, certamente, vale anche per la destra. Attraverso quella singolare novità testuale costituita dal berlusconismo, la destra si è trasformata in una schiumetta a pelo d'acqua allettante la sensibilità con i soli codici del piacere sensoriale: il sesso, il cibo, l'avvenenza esteriore e di status. E ovviamente e ancora la moda, di cui ha spostato i codici espressivi fatti di vincoli non causali, azzeramento delle gerarchie (cronologiche, significative, di valore) e centralità mistica del corpo, mentre la ritualità con cui si manifesta è al netto di una mitologia sottostante. Richiamandosi infine a una tradizione, il liberalismo, del tutto reinventata nella sovrapposizione di riferimenti politici del tutto incongrui.
Ma cos'è una tradizione che ha interamente perso ogni aderenza con la realtà vissuta che l'ha originata, se non folclore? Folclore di destra e folclore di sinistra, naturalmente. Comunque folclore.
Eppure, oltre al folclore e ai codici della moda a cui tacitamente si richiama, altri termini potremmo scovare dentro i nostri vocabolari quotidiani sempre più sfiniti. Termini antitetici, che dunque implicano il principio di responsabilità e una libera scelta, quali buono o cattivo, giusto o sbagliato, bello o brutto, vero o falso... Li abbiamo già incontrati, sì, nel nostro quasi racconto. Sembravano inservibili reliquie da un altro evo linguistico, e invece si dimostrano più che mai necessari. Perché è sopra a tali termini che diventa ora importante misurare le ricadute dei comportamenti individuali, l'aspirazione a un linguaggio che faccia nuovamente perno sulle cose. Le appartenenze politiche sono ormai dei semplici guardaroba, di nuovo come lo scheletro cavo dei gazometri: simulacro di ferro e bulloni, tralicci sospesi sul nulla che vedo sfilare all'orizzonte mentre rientro al mio appartamento da ricco alla Bovisa, con le tasche vuote.
Si può essere buoni e di destra, penso allora mentre estraggo dal frigor un budino di soya alla vaniglia, cattivi e di sinistra, giusti o veri o belli e di centro... E' solo nel sistema della moda che esiste questa ossessione del fare pendant, gli accostamenti suggestivi. Nell'etica individuale e politica contano molto più le ricadute delle azioni, non la coerenza espressiva ma quella tra propositi e risultati, tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, come suggeriva qualcuno.
Quanto a destra e sinistra, ognuno si tenga pure la moda e i gusti che preferisce. Io, per dire, io preferisco il minestrone che prepara la vecchia mamma di Paolino, quando plana fumante sul mio tavolo apparecchiato alla Speranza.

(ps - Ah, per la cronaca: i seminari sulle tradizioni spirituali sono stati organizzati per davvero. Chi fosse interessato può cliccare qui per informazioni, o scrivere o telefonare direttamente a me per adesioni o dubbi. Al link appena lasciato - di nuovo qui - trovate in ogni caso tutti gli estremi.)