venerdì 30 luglio 2010

Eutanasia della corrida, o sulla differenza tra mito e folclore


La Catalogna abolisce la corrida per decreto parlamentare. E' noto, se ne è parlato diffusamente nei giorni scorsi. Ma forse non è ancora propriamente una notizia. Per esserlo, per configurarsi quale notizia, un avvenimento deve infatti sovvertire un ordine atteso. Il cane che morde il bambino non è un notizia, il bambino che morde il cane invece lo è. O se vogliamo utilizzare una diversa metafora, perché si compia un omicidio la vittima deve essere, se non proprio in buona e robusta costituzione, almeno viva. Non è contemplato l'omicidio di un cadavere.

Sorvolando sui numerosi commenti letti, alcuni certo interessanti come quello dello scrittore andaluso Antonio Muñoz Molina, una buona domanda a me pare quella di chi si interroghi sulla linea encefalografica della corrida; prima che il parlamento catalano ne staccasse definitivamente la spina, intendo.

La mia idea è che la corrida fosse in coma già da diversi decenni, o comunque estranea a quel tessuto sottile ma tenace su cui si sviluppano i ricami della Spagna post franchista. Riferendosi invece a un ordine sociale, un sistema di segni ed emozioni profonde, la cui struttura è da riferirsi a un'organizzazione umana precedente. Costituita dal riverbero di simboli antichi dentro un crogiolo di passioni, regole d'onore, stati d'animo collettivi che senza timore potremmo classificare come premoderni e mitici.

Ma sarebbe forse utile chiarire meglio anche quest'ultimo termine, il mito alla cui tavola banchettavano gli dei. Euripide, in una celebre sentenza, afferma che “gli dei sono in tutte le cose.” E diversi secoli dopo Agostino risponde che la verità si ritrova all'interno dell'uomo: “in interiore homine stat veritas”.

Questa corrispondenza tra interno, o se preferiamo anima, coscienza, psiche e l'esterno fluttuante delle cose del mondo, è propriamente la mitologia, con il rituale che ha funzione di spoletta di raccordo. Un'arte analogica dunque, il gioco sottile di richiami tra dentro e fuori, tra fantasmi della mente e lenzuola che si gonfiano ai sospiri di un carrugio.

Se prendiamo per buona l'interpretazione genericamente ispirata alla prospettiva analitica junghiana, vediamo così come ogni rappresentazione mitica si allontani dall'idea moderna di intrattenimento, che diversamente si associa al concetto di distrazione, svagato congedo dalla propria interiorità. Nel mito invece tutto si addensa, il fuori rimanda al dentro, sempre più all'interno, concentrato. Fino a che l'anima, al culmine di questo spasmo introverso, non viene come sbalzata in un territorio senza più coordinate certe, ma proprio per ciò tanto più autentico e familiare.

Potremmo anche trovare nell'esperienza mitica una corrispondenza con il precetto evangelico per cui ci si deve perdere per potersi ritrovare. Ed è esattamente quanto doveva avvenire nel pubblico catalano durante l'esibizione della corrida, almeno fino a quando Hemingway ci arrivava dopo il consueto giro di aperitivi. Ritrovare la via di casa in un intrico di simboli sessuali, arcaici, primitivi. Con un Teseo\Apollo nella veste del torero che, nell'esattezza affilata della forma, cerca di contenere e poi sconfiggere il proprio drago, infilzare il Minotauro\Dioniso incarnato nella vitalità irredenta di un toro. Il quale - ecco perché deve essere infine ucciso - ha una funzione sovversiva dentro l'ordine patriarcale del discorso civile.

Ma poi?

Ma poi più niente. Non so quando questo sia accaduto, né perché, ma tutti i commentatori sono concordi nell'affermare che lo spettacolo tradizionale delle cinque della sera, già da molto tempo a questa parte, ha cessato di smuovere sensazioni dentro le viscere degli spagnoli, prima ancora che nella loro testa. Non che nessuno assista alla corrida, però. Viene ancora seguita, allo stesso modo in cui il vecchio cane segue l'ombra del padrone defunto, a cui rimane fedele in altri e più svelti passi. La corrida ha smesso semplicemente di accadere.

In altri termini, l'essenza mitica e palpitante contenuta nel preciso rituale della tauromachia si è come ritirata, lasciando sulla spiaggia l'orma della sua sola struttura, che ha così finito con l'ossidarsi in stereotipo. Abbiamo a questo modo un evento originalmente vitale e profondo ridotto al suo sfinito simulacro, un cavallo di legno da cui tutti i guerrieri sono sgusciati fuori la notte. Ma invece che dar fuoco alla città, violentare le pallide vergini frementi, ora si trovano a piluccare hamburger e patatine fritte, in un bar con la televisione accesa.

E tutto ciò ha un nome ben preciso: folclore.

Il folclore è infatti il contenitore, l'involucro di un evento carico di profonde risonanze umane, psicologiche, simboliche e culturali, ma al netto della sostanza per cui la forma ha preso quell'aspetto. Insomma, il folclore ha una funzione unicamente ornamentale, e pertanto allontana dall'interiorità - distrae - almeno quanto l'esperienza mitica concentrava e rendeva prossimi a sé, sperdeva per ritrovare.

Il punto davvero interessante a me appare proprio questo. Se una rappresentazione a sfondo mitico, come appunto la corrida, ci conduceva in uno stato mentale in cui potevamo avere un'esperienza intima e profonda di noi stessi, per quanto in forme allusive e prerazionali e perfino crudeli, nel folclore abbiamo un esito del tutto ribaltato. Ma se capovolgiamo la verità otteniamo l'inautentico, e cioè una logora finzione programmata ad uso turistico; quando si sa che il turista, al contrario del viaggiatore, non desidera esporsi al vento dell'esperienza ma un semplice ventaglio colorato, che ne confermi le aspettative indotte. E così la corrida, che da uragano mitologico si era ridotta allo sbuffo regolare - e regolato - di un ventilatore elettrico.

Una barca a vela che nasconde il ronzio di un'elica, meglio, nello spossato afflosciarsi delle vele.

Trascurando provvisoriamente tutte le ragioni legate al rispetto degli animali e alla loro sofferenza - ragioni benemerite, attenzione, per quanto ipocritamente agite solo in direzioni particolari - e allo sfondo politico del decreto catalano, che anche in questo modo ha voluto affermare una propria distinzione dalla centralità repubblicana percepita come ostile, cosa rimane?

Riamane uno stereotipo ormai totalmente svigorito, immemore della potenza evocativa che pure un tempo possedeva e irraggiava, e verso cui le nuove generazione hanno giustamente perso ogni interesse. Ossia un rituale kitsch agito da maschi adulti pieni di lustrini carnevaleschi, mossette vagamente comiche se non omoerotiche e certamente caricaturali, con l'unica verità costituita dal lungo protrarsi della pena di un animale umiliato.

E se qualcuno ancora rimpiange tutto ciò, sostenendo che gli ricorda Hemingway con il suo basco nero e un poco obliquo, la macchina da scrivere posata sulle ginocchia come un gattone che fa le fusa, forse è il caso di offrirgli un bel mojito. Anzi, due o tre.

mercoledì 14 luglio 2010

Doomsday, o sull'onomastica canina e altre storie



E' tornata all'improvviso dagli anni cinquanta.

Non so se la prima volta io l'abbia vista in un film, oppure in televisione, sui giornali, l'immagine di un enorme quadrante di orologio.

Maschi adulti con un grembiulino bianco muovevano a discrezione la lancetta, in senso orario ma anche in direzione inversa, a seconda di quanto reputavano vicina una catastrofe planetaria di qualunque tipo.

Una guerra nucleare tra Russia e America, ad esempio. Oppure eruzioni, meteoriti, flagelli batteriologici e invasioni aliene. Tutto faceva brodo, negli anni cinquanta, per spostare l'affilatissima lama dei minuti una sola tacca più in là.

Fu realizzato nel 1947 da un gruppo di scienziati atomici, chiamandolo Doomsday Clock, l'orologio della distruzione.

Sembra il nome di uno di quei cagnetti piccoli e chiassosi, dal muso buffo e affilato. Invece è una specie di clessidra implacabile, dove la mezzanotte incombe minacciosa e coincide con la fine del mondo. O meglio di quella minima e provvisoria versione del mondo in forma umana, la nostra.

E c'è perfino una sensazione di rassicurante compostezza, nel dare un tempo e una direzione alla figura più enigmatica di tutte, scomponendo l'imprevisto con un bel grembiule da otorinolaringoiatra indosso. Ma così, imprevista, pure è ritornata.

Dagli anni cinquanta.

E' ritornata questa confusa percezione di distruzione, annullamento. No, il 2012 non c'entra nulla. Un totale e sommesso disinteressamento verso ogni cosa, compreso i cori fin troppo intonati delle Cassandre, come nel monologo di Apocalypse Now , da una poesia di Thomas Eliot:

"Noi siamo gli uomini cavi, noi siamo gli uomini impagliati, appoggiati l'uno all'altro, la testa piena di paglia..."

Ed è la sagoma massiccia del colonnello Kurt che emerge dalla penombra livida, mentre si accarezza l'unica parte che ancora riluce al fuoco delle candele, il cranio glabro sfinito dai raggi del sole tropicale, nell'altrettanto e assoluto sfinimento per tutto quanto.

Una pena diffusa, feroce, compassionevole ma ugualmente distruttiva, anche e forse soprattutto verso di sé.

Un paradosso, sì.

Quello che fa muovere la lancetta in avanti con le proprie mani, per truccare sul tempo, per avvicinarsi, solo pochi minuti ancora, alla mezzanotte.

Ma perché gli psichiatri si ostinano a chiamarla depressione?

E' solo un gioco da bambini stanchi, convinti che ogni lenzuolo sia una vela, una tenda, e sotto sotto covi il risveglio dopo un brutto sogno. Con Doomsday che scodinzola e fa le feste, abbaia per uscire quando ancora spiovono certi goccioloni.

In un'abbagliante cascata di luce e di corn flakes.

La creatività fa male, o sulla deriva dei continenti linguistici


Io penso che la creatività faccia male. Ecco, lo scrivo subito e non ci penso più. Sono convinto faccia male, meglio, lo stupido pregiudizio per cui dentro ognuno di noi riposi sepolto un tesoro esclusivo di parole, immagini, emozioni, pensieri, stati d'animo di cui il mondo merita di essere al più presto informato – per mezzo della creatività.

E così ci si improvvisa poeti, artisti, fotografi, letterati. Quindi si corre a postare orgogliosi le proprie creazioni su internet; altri te le affidano in mano trepidanti rivendicando un giudizio in fondo già scontato, almeno nella loro testa: “Che immagini originali e suggestive, come sei creativo!”

Una volta un tale che voleva a tutti costi che io leggessi le sue poesie, alla domanda su quali fossero i poeti che a sua volta frequentava, mi rispose seraficamente: “Io non leggo gli altri poeti, mi influenzerebbero, mi corromperebbero. Io sono un poeta, un creativo. Non un lettore”.

E io sono uno a cui i poeti tanto puri, tanto incorruttibili, stanno sui coglioni, avrei dovuto rispondergli. Uno sprovvisto di enzimi per digerire i creativi. Tutti. Indistintamente. Compreso le nuove istituzioni mediatiche, che allungano la corda a questa incalzante tendenza tardo-moderna. La creatività.

In una bella serie di lezioni radiofoniche, Giuseppe Pontiggia ricordava come per i latini il termine creatività non avrebbe avuto alcun senso. Un tempo gli artisti non creavano infatti i loro contenuti, che erano il frutto, nella percezione diffusa dell'impulso immaginativo, del suggerimento delle Muse. Ossia inventavano, che sta a significare che semplicemente e letteralmente li trovavano.

(Inventare, dal lat. invéntus, participio passato del verbo invenire: trovare, scoprire cercando, e propr. giungere a qualche meta.)

Ma se le immagini, i temi e le suggestioni non sono di esclusiva pertinenza dell'artista, ciò significa che il suo merito personale va limitato alla cura e alla sensibilità dell'esecuzione. Cioè al suo lato pratico, che i latini facevano coincidere con l'arte tout court, una sorta di perizia del fare.

Il termine creatività ha dunque la sua legittimazione non in campo estetico, ma teologico. Nella tradizione giudaica e poi cristiana, si fa strada l'idea di una divinità che cava dal nulla le cose – “creatio ex nihlo” - per poi consegnarle ancora umide e scintillanti al mondo, come il nuovo giocattolo del bambino.

Anche nella moderna fisica delle particelle è presente l'idea di una realtà ultima in continuo stato di ebollizione, dove ciò che è, gli “essenti” si potrebbe dire con una terminologia filosofica, rampolla misteriosamente dal nulla, prima di esserne nuovamente riassorbito.

L'universo sarebbe dunque anch'esso creativo, e ciò sembra legittimare la diffusione inarrestabile del termine. Con una differenza, piccola, ma decisiva. Quella che l'universo non corre immediatamente a postare le proprie creazioni su Facebook, ma le sottopone prima al vaglio dell'evoluzione, al collaudo dei secoli.

E' forse la differenza che passa tra il termine già incontrato di arte, ars, fare, alla semplificazione spontaneista che soggiace a ogni maldestro tentativo. Un'opera d'arte sarebbe insomma un'opera meditata, verificata attraverso una comune e vigile esperienza. Che in campo artistico corrisponde a una percezione più lucida e viva di ciò che è, contribuendo allo stesso tempo a mostrare ciò che potrebbe essere.

Ma se accettiamo questa sfumatura concreta e fattiva, che non nega l'emozione e la sensibilità personali ma le ancora a una percezione più estesa e transitiva del processo espressivo, ci avviciniamo anche alla radice di quello che io trovo essere l'equivoco contemporaneo. Ciò che viene disinvoltamente rubricato alla voce creatività, coincide, in effetti, non con una sfumatura teologica della prassi, ma con una diversa categoria linguistica: la velleità.

Proviamo allora, anche solo per gioco, a volgere in questo diverso modo alcuni tra i molteplici utilizzi del termine creatività, specie nella sua funzione aggettivale. Le scuole di scrittura creativa, ad esempio. E se fossero invece, magari non tutte, d'accordo, se non fossero altro che scuole di scrittura velleitaria?

Oppure i pubblicitari, almeno quelli che orgogliosamente si definiscono creativi, immaginiamoli magari un poco indulgendo allo stereotipo – occhiali in celluloide fucsia e abiti dalle fogge variopinte e bizzarre - che così si presentano a un primo incontro: “Piacere, mi chiamo Tal dei Tali e sono un velleitario”.

Torna alla mente una vecchia intervista a Federico Fellini, in cui raccontando l'origine del soggetto della Dolce vita, scaturito come noto da una collaborazione con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, con vocina sorniona così lo sintetizzò: “E' la storia di una certo Guido, di professione velleitario”.

O sarà che anche io mi chiamo Guido, e che mi interesso di scrittura, di narrazioni, tanto da essermi spesso interrogato su quel che faccio, non senza una punta di disagio. Intendo dire, come faccio a sapere se sono un narratore o un velleitario...?

L'unica risposta, per quanto provvisoria, che alla fine mi sono dato, è che velleitario è colui che non è disposto (o forse non ne è semplicemente capace, non ci pensa) a verificare la propria intuizione dentro un orizzonte di saperi costituiti, di vagliarla per mezzo di una consapevolezza che discende da una tradizione viva.

Questa facoltà di scegliere e discernere tra diverse possibili opzioni, ancora ci rimanda all'invenzione, il termine latino da cui siamo partiti. La differenza che passa tra un creativo e un inventivo è dunque quella che passa tra chi si pensa al centro del mondo, come l'ombelico di Brahma da cui sboccia il fiore di ogni cosa, e chi invece sa che dall'altra parte del confessionale ci sta sempre qualcuno; le Muse, un canone artistico, la felice e necessaria influenza dei maestri, a guidare ogni nostro timido e goffo passo verso la pienezza espressiva.

Che senza tale aiuto resterebbe sempre e solo quel che è: pura velleità.

lunedì 12 luglio 2010

I will survive, o sull'orrore come brutto muso del kitsch


Sono semplicemente entusiasta della video performance dell'artista australiana Jane Korman. Figlia di un sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz, ad Auschwitz la Korman è di recente tornata insieme ai suoi tre figli e all'anziano genitore (89 anni).
Sulle note della celebre canzone di Gloria Gaynor I will survive, le tre generazioni di superstiti - già che senza la sopravvivenza dell'unico e vero internato, nemmeno gli altri ora sarebbero lì - iniziano uno strano e buffo balletto nei luoghi dello sterminio, quasi la farsa di un musical hollywoodiano.
Inevitabili dunque le polemiche, da ogni parte del mondo.
Eppure la chiave geniale dell'operazione sta proprio nella cifra della messa in scena, con tutta evidenza kitsch. Che ci ricorda come gli orrori più diffusi - e Auschwitz ha dell'orrore il diritto simbolico di antonomasia - nascono spesso da un gesto sciaguratamente kitsch. E cioè emulativo di un modello limpido e astratto, sontuoso, ma privo della sua ombra incarnata nella contingenza, che produce il necessario anticorpo dell'eccezione. Così senza più deroga ad una norma stilizzata nella parodia del vero, ciò che va perduto è il più umano tra i sentimenti: la pietas.
Che lo si dica, allora, che lo si scriva e lo si racconti ai giovani, che il nazismo è stato prima di ogni altra cosa un comico e funesto baraccone kitsch.
Oppure lo insceni, con beffardo spirito mimetico - omeopatico, sarebbe forse più giusto dire - come fa Jane Korman insieme alla sua complice famiglia. Che con i loro allegri passetti di danza sulle pietre che hanno visto l'orrore, ci ricorda, o meglio ci mostra come la vita sappia sopravvive a tutto. Anche all'orrore, sì. Soprattutto all'orrore.
Perché l'orrore non è nient'altro che la vita quando si prende troppo sul serio. Divenendo kitsch.

Qui è possibile rivedere il video in questione.

Il romanzo im-mondo, o sulla faglia che solca la nuova scena letteraria italiana


Da qualche tempo si sta facendo spazio dentro di me un'idea. Un sospetto, meglio. Quello che alcuni tra i più significativi narratori di questo paese abbiano fatto della letteratura un totem, una sorta di mistica privata ma anche tribale, a cui accostarsi con toni accigliati e severi.

Ricavo tale sospetto non dalle opere, che sono anzi estremamente varie e felicemente differenziate, ma da diffusi interventi che leggo sul web, vero e proprio terreno di coltura che ha consentito il rifiorire di qualcosa che somiglia a un dibattito culturale.

E fortunatamente solo ci somiglia, senza esserlo, perché sul web ci si è molto allontanati dalla sclerosi formale e accademica con cui il termine si accompagnava negli anni passati, riavvicinando la riflessione critica all'esperienza viva e spesso sofferta del presente. Dopo un periodo di oblio in seguito al farmaco assopente degli anni ottanta, gli autori contemporanei hanno ripreso a mettere a tema il proprio lavoro, compreso quegli aspetti che derivano dalla visibilità sociale ottenuta, sviluppando una riflessione ricca, varia e articolata, ma accomunata da quei tratti di idiosincratica radicalità che abbiamo registrato all'inizio.

Anche i testi narrativi patiscono il presente, ma non in forma unitaria e piuttosto lacerata e franta. Non siamo insomma al cospetto di “opere-mondo”, per utilizzare il bel termine inaugurato da Franco Moretti, con cui caratterizzava certi esiti onnivori della letteratura americana post-moderna. La sintesi la troviamo invece nella parole lucidamente autocritiche delle nuove leve di scrittori, che al netto di Roberto Saviano, il quale ha fatto di una concreta utopia civile il proprio tema personale, manifestano un progressivo fastidio verso ogni appartenenza non solo politica ma anche geografica.

Nonostante il diffuso riferirsi a un autore come Pasolini, recuperato in funzione magistrale con un'unanimità di consenso che appare perfino imbarazzante, è difficile scorgere nel panorama letterario italiano una reale tensione d'appartenenza, seppure nostalgica come appunto avveniva in Pasolini, a una comunità allargata che faccia riferimento a un luogo fisico. Ciò in cui si incaglia la continua riflessione di questi autori è dunque proprio l'assenza di qualcosa come una “heimat”, che faccia da cornice comune anche nel dividersi, nello schierarsi, come avveniva fino a un paio di decenni fa. Viceversa è proprio la nozione di patria, per quanto lasca o estesa come il termine Occidente, o Europa, a procurare maggiori defezioni.

Tutti si occupano del paese o della civiltà in cui ci sentiamo storicamente ingaggiati, ma nessuno ne avverte personalmente il legame, se non in una forma sarcastica e stupefatta – quella tragica meraviglia da cui i Greci trassero la filosofia (“thauma”).

Non è presente negli scrittori contemporanei nemmeno una mitologia esotica, come all'inizio del secolo, o il rinnovarsi del sogno americano, che ha più tardi segnato gli autori del secondo dopoguerra; in seguito fu invece il Sud America o altri lembi di mondo. No, non c'è più nessun altrove geografico a distrarre le poetiche del presente; ma neppure nessun qui e non dico ora, ma domani, dopodomani, a configurarsi quale utopia civile.

L'imbuto geografico sembrerebbe condurre a una sensibilità nichilista, al buio sconforto della generazione del “no future”, che solo nelle forme frastagliate di una ribellione senza oggetto, prima ancora che senza speranza, ha caratterizzato una significativa minoranza negli anni settanta. Ci sono però molti segnali che ci allontano anche da questa interpretazione. Si registrano infatti molte parole circostanziate ai luoghi, ed è grande e convinto il coniugare verbi al presente. Oltre appunto una grande attenzione alle dinamiche politiche e antropologiche del quotidiano, come se ci stesse muovendo in folta schiera verso qualcosa...

Ma dove stanno andando tutti questi scrittori, in quale direzione, se non hanno in tasca alcun biglietto aereo; e nemmeno una zappa o un badile o un martello, con cui ricostruire questo paese dall'interno?

Forse non sono in marcia verso un luogo, ma all'interno della letteratura stessa, che sembra essere divenuta lo spazio concreto in cui i nuovi narratori sono diretti. Ma attenzione, letteratura intesa non come forma vuota di parole, cioè come struttura linguistica, gioco combinatorio, ma come crogiolo in cui il corpo intercetta il mondo e le altre presenze vive che lo abitano, che solo attraverso tale attrito paiono acquisire consistenza, diventare dicibili.

La serietà e perfino la prosopopea, alle volte, di questi nuovi autori, segnala dunque l'impossibilità di una vita dentro questo mondo; ma allo stesso tempo allude all'assenza di un altro mondo in cui rifugiarsi, se non all'interno di sé e nelle relazioni orizzontali e selettive tra naufraghi.

La letteratura diviene così uno stigma di appartenenza, un tulipano nero tatuato sotto la camicia, che davvero ci allontana dal Novecento ma non in un definitivo balzo in avanti, e semmai indietro. Il sospetto iniziale si precisa così nell'immagine biblica di una comunità letteraria impegnata in un esodo di massa verso l'Ottocento. Cioè verso una socialità in cui le distinzioni non avvengono tanto per reddito, censo o progetto politico, ma per “estetica”. E intendo il termine nel suo significato originario e filosofico, e cioè di percezione sensibile del reale circostante.

Nell'Ottocento si contrapponeva la grassa e pigra estetica borghese a quella degli artisti. Ora i termini sono più confusi, sfumati. Ma mi pare evidente che gli esiti della politica, in particolare la politica dei consumi e della finzione spettacolare, e cioè l'uroboro che in questo paese parte e ritorna a Mediaset, abbiano portato le persone a una radicalizzazione del conflitto, che non è ormai più politico ma appunto estetico e di sensibilità.

La letteratura, come da suo mandato, rende tutto ciò semplicemente più evidente. Ma non essendo una scienza esatta e fintamente neutrale, lo fa con una passione di parte che sembra non lasciare più scampo a utopie rigenerative. L'Italia è morta, sì, e una comunità civile non solo non è data ma nemmeno più pensabile, sembrano dirci i nuovi autori. Se non nella forma trasversale di comunità estetiche non localizzate, e dunque letterarie.

La nuova tendenza che ricaviamo dalla lettura dei romanzi, ma soprattutto degli interventi sul web dei narratori contemporanei più interessanti, non ha ancora un nome né contorni definiti e certi. In opposizione ironica alla formula di Franco Moretti a cui già ci siamo riferiti, mi verrebbe però da battezzarla provvisoriamente a questo modo: “romanzo im-mondo”.

Che ci ricorda come non ci sia più un mondo in cui il presente possa essere ricomposto in figura, una società in cui sviluppare dialetticamente il conflitto estetico. Ma se afferriamo i lembi lacerati della ferita, come i nuovi narratori ci insegnano fare, forse riusciremo anche noi a cavare qualcosa di ancora vivo e palpitante, quattro gambette che scalciano e si dimenano.

Non due, quattro. Perché si tratta con evidenza di gemelli eterozigoti, che non hanno più nessuna intenzione di condividere lo stesso utero angusto

Eppure è proprio a questo livello germinale, ossia letteralmente dell'origine, del corpo, del sangue e del sesso e del male, che possiamo vedere come la letteratura sappia ancora svolgere la sua preziosa funzione di compendio paradossale. Perché se anche la puerpera è ormai cadavere putrescente, ci accorgiamo che i due gemelli -l'Italia berlusconiana e quella anti-berlusconiana, potremmo dire semplificando - sono pur sempre figli della stessa tribolazione.

E allora forse non è tanto importante recuperare il sentimento di una comunità territoriale, ma un sentimento, uno qualsiasi, segno che il corpo non ha ancora cessato di fare esperienza di quel che ci sta là fuori, e con parole balbettanti prova a restituirne lo stupore.

Torniamo a thauma, a un mondo senza patria, confini, ci stanno così sussurrando i nostri più vigili scrittori.


(Ps – Ho volutamente cercato di evitare di nominare specifici autori o correnti, riservandomi di farlo in un secondo momento. A questo primo livello intuitivo credo sia opportuno mantenere i contorni nella necessaria vaghezza. Contemplando, negli esiti futuri, anche quello dell'errore.)

giovedì 8 luglio 2010

Colabrodo, o sulla fenomenologia della chat


Ho provato perfino a battezzarla, senza riuscirci. Eppure quella che sperimento è una sensazione diffusa, quotidiana e per nulla drammatica, come se la scodella che ci contiene fosse divenuta all'improvviso un colabrodo, e da piccoli forellini chiunque potesse penetrarci in ogni momento.
E' sufficiente accendere il computer, collegarsi a un social network come facebook, e dopo pochi minuti un qualche conoscente, anche virtuale, si farà vivo con la finestrella della chat.
Farsi vivo, ecco. Un'espressione logorata dall'utilizzo, ma che in questo caso mi sembra recuperare la sua originaria pertinenza con le cose. Non sono infatti delle richieste di informazioni, o l'offerta di una generica conversazione, quelle che provengono da questi nostri conoscenti che ci inchiodano alla presenza, qui, ora, o piuttosto ora e in nessun qui, ma vere e proprio manifestazioni di vita.
Ciao, cucu, come va, disturbo... Espressioni che normalmente segnalano la disponibilità a un dialogo, o ancora meglio servono a stabilire e mantenere un flusso comunicativo attraverso interiezioni, ammiccamenti verbali, su internet è come se acquisissero una consistenza autonoma. Più che uno specifico contenuto informazionale, tali espressioni segnalano infatti una disposizione psicologica, una sorta di cornice alla comunicazione vera e propria. Ciò che nella teoria linguistica viene chiamata “funzione fatica”. Ossia, letteralmente, un parlare (“fari”) per parlare, un segno che ha in sé il suo unico riferimento, quasi fosse la prova tecnica del microfono prima della canzone.
Il problema è che la canzone per cui vengono fatte infinite prove, poi non arriva mai.
Al tempo della comunicazione di massa, capillare, diffusa e vincente, c'è dunque da sospettare che si accompagni una corrispondente ansia d'abbandono informativo, che muove alla richiesta di continue riconferme sulla vigilanza dell'interlocutore. O meglio, non dell'interlocutore ma di “un” interlocutore, uno a caso, purché disposto a confortarci sulla sua semplice e sola presenza, quanto e forse soprattutto sulla nostra.
Vengono alla mente le immagini di certi film di fantascienza del dopoguerra, dove, al seguito di un invasione aliena dallo spazio, un uomo si aggrappa urlando alla cornetta del telefono: “Hei, c'è qualcuno, c'è nessuno dall'altra parte?!”
Ma quando l'inquadratura si allarga in uno zoom indietro, il totale restituisce l'immagine di quello stesso uomo mutato in un grosso insetto peloso. Sì, è ormai diventato un alieno anche lui.
Ciao, cucu, come va, disturbo...
Un formulario alieno, proviamo allora a vederla a questo modo, distante dalla sottigliezza garbata di una lingua scritta ma ugualmente dalle sfumature vocali del parlato. Come se la chat riuscisse a sintetizzare il peggio dell'oralità e della forma grafica, realizzando la formidabile impresa di azzerare qualsiasi sforzo di conferire significato, ma anche patos, emozione, a quel che stiamo dicendo.
Eppure in questa vitalità senza sangue, in questa semiosi senza oggetto, anche la lingua della chat ha forse qualche specifica attinenza. Uno strumento dove il grottesco diviene plausibile, in cui la blatera non causa più vergogna. E in cui l'erotismo infantile riacquista familiarità dentro le nostre esistenze sempre più disincarnate.
Di che colore hai le mutandine, qual è la taglia del tuo reggiseno...? Frasi di questo tenore, da manga erotico giapponese, diventano moneta corrente dentro le chat, specie tra sconosciuti. Senza la verifica dell'esperienza, la fantasia può sfrenarsi nella forma che gli è più congeniale: quella del fumetto.
Ma questo è in fondo un caso particolare, che ci allontana dallo stanco dilagare delle frasette di circostanza appena descritte. All'inizio ho provato anche a prendere sul serio tali approcci, interpretandoli come offerte di dialogo, epifanie umane all'interno di una pigra routine tecnologica. Così pure io mi aggrappavo alla cornetta, sì, c'è qualcuno dall'altra parte, roger roger, ma ne ricavavo un senso di frustrazione crescente.
Nessuno aveva realmente qualcosa da dirmi, nemmeno persone che avevo frequentato, perfino amato in alcuni casi, e che ora mi restituivano una formuletta logora per intercettare il mio tempo, senza la corrispondente disponibilità a occupare la mia attenzione con un racconto, o anche solo con lo sguardo vigile di chi abbia ancora voglia di essere stupito, dirottato dall'immobile certezza del presente.
Una chat si risolve allora e il più delle volte in questo: pura dissipazione verbale, perdita di tempo e di concentrazione su uno specifico argomento, ciò che una volta si sarebbe chiamato tema. In un orizzonte che, a questo modo, si fa davvero orizzontale. Quello del colabrodo che non trattiene nulla ma tutto lascia filtrare, anche i fili della pasta che sgusciano fuori come tanti vermetti neghittosi, in fuga verso la terra promessa dei buongustai.
Mentre il sugo è altrove, sempre altrove, e qui continuiamo gocciolare parole in una lingua dietetica e scotta.