lunedì 29 giugno 2009

Il vero artista (intervento del marzo 2003)


Giovedì 13 marzo 2003, Canale 5. Mentre Andrea Francolino esce dalla casa del Grande Fratello ed entra nello studio televisivo, il padre gli corre incontro gridando: “Ecco il vero artista, ecco il vero artista!” Andrea Francolino è diplomato all’Accademia di belle arti di Bari, leggo su internet, sezione scultura. A parte qualche smilza recensione su riviste di settore, l’unico motivo di una sua certa fama è la partecipazione alla trasmissione di Canale 5. Come noto, in questo programma i concorrenti sono ripresi per ventiquattro ore al giorno. Ventiquattro ore in cui non fanno assolutamente nulla; eccetto parlare in continuazione, di nulla.

Forse nessuno meglio di Andy Wharol, nel secolo precedente, ha saputo interpretare la crisi che sta attraversando l’arte nella modernità. Le rappresentazioni in cui una comunità si riconosce e che costituiscono la sua identità non sono più, come nel passato, i grandi panneggi di arte e teologia, ma l’anonimo sottoprodotto del marketing pubblicitario. Anche se bisogna riconoscere che il Mercato non è privo di una certa filosofia esistenziale, tale senso è ciò che il Mercato stesso chiamerebbe valore aggiunto: uno stile di vita omogeneo all’espansione del Mercato stesso, semplicemente. L’artista viene così espropriato della sua funzione autenticamente “creativa”, ossia di generazione dentro un codice di segni condiviso, che può recuperare, solo in minima parte, ricamando all’orlo della rappresentazione allettante delle merci. Quello che l’arte pop rivela è così uno scarto di competenze, un gioco di seggiole. La pubblicità va a insediarsi nel posto occupato tradizionalmente dall’arte, che è appunto la creazione simbolica (sebbene per conto terzi: prima Dio, ora il Mercato), mentre l’arte a sua volta si muove verso il posto latitante della teoria critica; messa fuori gioco dalla pigrizia e dalla moltiplicazione dei codici di significato, che finiscono col produrre un effetto di elisione.

Con la modernità si impongono anche il cinema e l’iconografia politica, altri sistemi di rappresentazione e di riconoscimento sociale; ma la loro autonomia è fittizia, essendo entrambi motivati dalle stesse ragioni di propaganda e di consumo (l’anonima serialità delle immagini di Marylin e di Mao, si riflettono in quelle della Coca-Cola e della zuppa Campbell). Ciò che manca è in pratica una titolarità della visione, divenuta il risultato di invisibili strategie collettive, non necessariamente oscure. L’artista, per come siamo abituati ad intenderlo, cioè come colui che dice “io” (io vedo, io creo, io dico), succede in un tempo relativamente recente alle voci anonime della fabulazione mitica, ma verso quell’anonimato sembra venire ora ricacciato. Retroazione vissuta con disagio e senso di degradazione, e da cui si è ricavata la nozione di crisi. In realtà, se di crisi si può parlare, non è tanto relativa all’oggetto artistico quanto appunto al soggetto creatore: è la crisi dell’artista, non dell’arte. Se l’uomo si è ritrovato muto di fronte all’inaudito dei tempi moderni, l’arte si è riempita la bocca di tale assenza di parole, guadagnando una consapevolezza di sé che si è tradotta in eloquenza espressiva.

Altri nomi: Musil, Kafka, Beckett, Joyce, Ionesco o più recentemente Bernhard o Pynchon, in ambito letterario e a titolo di indicazione parziale. Sintetizzando, quindi anche banalizzando, si potrebbe dire che il discorso dell’arte della crisi sia una paradossale ammissione di impossibilità: creando, gli artisti ci dicono della impossibilità della creazione. In questo senso l’artista diventa ciascuno di noi. Espropriato dai sistemi di produzione e rappresentazione della società di massa della possibilità di creare la vita in modo autonomo e originale, ma a differenza che nelle narrazioni religiose del passato consapevole di tale impossibilità, l’uomo moderno può solamente tradurre questa esperienza in sintomo, cioè in “opera”, e dunque in indefinito e vano brusio psicologico. C’è un’imbarazzante continuità tra l’estenuata interrogazione di sé di Zeno Cosini, nel romanzo di Svevo, e l’accigliato psicologismo nelle rubriche giornalistiche della posta del cuore.

Sembrerebbe la condizione dello scacco tragico, un dover essere che si contrappone a una impossibilità a essere. Ma è quanto gli artisti della crisi si affrettano a smentire: l’epilogo tragico, la solennità dell’uomo che dignitosamente si appresta alla propria fine, sulla scena moderna incontra inevitabilmente un effetto grottesco. Il suicidio di Mishima, con la sua dolorosa ripulsa alla trasformazione sociale indotta dalla modernità, è forse l’esempio più evidente di kitsch tragico. Il dolore non trova più una rappresentazione credibile, a parte forse l’ellissi.

Della difficoltà di una rappresentazione credibile del dolore, l’artista, inteso nuovamente come generatore dell’ordine simbolico e non più come uomo comune, è ancora la vittima principale. Farsi titolare di una rappresentazione collettiva immagino voglia infatti dire, prima di ogni altra cosa, farsi titolare dell’unica esperienza originariamente collettiva: il dolore. Esperienza che non solo è stata espropriata, ma annichilita dal marketing politico-merceologico – lo scarto radicale tra eteronomia teologica e merceologica, sta proprio nella cancellazione del dolore come scaturigine della rappresentazione. Così senza il suo “oggetto specifico”, il dolore, e la sua soggettività esemplare, l’artista da creatore diviene “creativo”; cioè bizzarro, singolare, stravagante, buffo. In altre parole: ornamentale.

Fino alla trasmissione televisiva di giovedì 13 marzo, nel sentimento comune l’artista era dunque sinonimo di eccentrico, sorta di scimmietta dispettosa sulle spalle della modernità - l’emersione dello stereotipo che si fa emblema, possiamo ritrovarla nelle fenomenali caricature di pittori, musicisti e letterati offerte da Totò nei suoi film. Ma dopo l’urlo liberatore del padre di Andrea Francolino – “Ecco il vero artista, ecco il vero artista!” – si può dedurre che il gioco delle sedie abbia concluso la corsa in circolo. Non solo l’artista non è più uno sguardo visionario che, con le mani o il pennello o le parole, sa realizzarsi in “visione” compiuta: inaugurando mondi, focalizzando lo sguardo che altri dopo di lui avranno sulle cose e sul loro significato. Non solo questo primo depotenziamento, ma il ribaltamento che ha trasformato l’artista, il “vero artista”, nel prodotto della rappresentazione. Ed ecco allora che l’artista viene generato da una costola del nulla come, un tempo, dal nulla avrebbe generato la rappresentazione. In questo dobbiamo essere grati al signor Francolino: che mi risulti, è stato il primo ad aver affermato con tanta vigorosa chiarezza che il re è nudo. E che suo figlio non è propriamente suo figlio, ma nostro fratello.

sabato 27 giugno 2009

Vincere, quasi una recensione


Vincere, di Marco Bellocchio, cinema Excelsior di Sondrio. Ad Alessandra piace soprattutto l'interpretazione della Mezzogiorno - intensa, è questo l'aggettivo giusto? Io quando vado a cinema ho invece bisogno di credere, o forse lo credo davvero, che gli attori non siano attori, e quel che vedo sia una tra le tante possibili evenienze del reale. Per me John Wayne andava in bagno a cavallo, ecco. Un'attitudine che funziona molto bene con i film porno e meno con quelli di Marco Bellocchio: cinema di idee al massimo grado di concentrazione, qui ancora più che altrove. Eppure anche a me è piaciuto molto - estensione, è questo il sostantivo giusto?
L'estensione delle teorie di Foucault sulla rimozione dell'elemento emotivo e passionale come premessa alla fondazione simbolica del Potere, qualsiasi potere, in cui ritorna come sintomo o degradata sublimazione, in Vincere trova un correlativo perfetto che potrebbe essere didascalico o pedante. Invece non lo è. Ida Dalser è ombra viscerale alla retorica linguistica del fascismo, ma è anche una donna vera, che forse proprio perché vera e donna e viva, non riesce a conformarsi a un ordine del discorso fondato sullo sfasamento nominale. E' questo il gesto totalitario: spostare il dato di realtà a un orizzonte ulteriore, dentro un codice espressivo che non contempla il corpo e l’adesso? Se bisogna vincere, allora, vinceremo. Tempo futuro.
Ma andiamo per gradi. Ida Dalser è giovane e bella e trentina. Della bellezza che è presenza dentro il mondo, ne ha fatto anche una professione. Però all'improvviso vende tutto per offrire il ricavato ad un uomo. Lui ha bisogno di denaro, lei ha bisogno di lui. Una storia d'amore, punto.
Invece non è così perché abbiamo questo sfasamento: non nei sentimenti, ma nei codici discorsivi. Più che di ragione e sentimento, si tratta forse di corpo e immagine del corpo, narrazione. Lei, il suo corpo, sono conficcati in un'attualità di sangue e nervi. L'unica volta che lui le dice ti amo pronuncia la frase in una lingua straniera. Ida Dalser scopre quindi di essere difforme a un potere basato sull'iperbole narrativa, che porta a una sorta di disallineamento o diacronia esistenziale - il Re è nudo quando si espone sulla terrazza, ma l'uomo dentro il suo letto è velato e guarda altrove. Ne consegue che viene presto espunta, come errore grammaticale, da quella fabula che si è nel frattempo fatta sistema egemone e condiviso, dunque vocabolario. Il manicomio funziona così da parentesi linguistica, dove più tardi verrà internato anche il figlio, sintomo visibile ed "osceno" dell'infrazione al codice di differimento del Potere. Qui entrambi moriranno rispettivamente a 57 anni (1937) e 26 anni (1942).
Ma fino a questo punto siamo forse ancora all'elemento generale e di continuità sotteso al cinema di Bellocchio, soprattutto quello in collaborazione con lo psicanalista Massimo Fagioli: la follia come testo negato, che si ripresenta per mezzo di una diversa codificazione. La novità di contenuto, che si appoggia a scelte stilistiche controllatissime che la rilanciano, ossia la innalzano dentro una potente visione mai stemperata in sublimazione, sta forse nello sviluppo di un tema diverso seppure implicito, ugualmente dedotto dall'ultimo Foucault. Sto pensando alla "parresia", argomento che fu al centro del suo ultimo ciclo di lezioni (1983) all'università californiana di Berkley. Parresia, che significa semplicemente "dire la verità".
Ida dice la verità, l'afferma in continuazione. Ma non per convenienza, al contrario: per una necessità quasi corporea di far corrispondere il nome con la percezione della cosa, che è poi l'unica forma ammessa di esistenza sociale ("dammi un nome dammi un nome", implora l'insetto nella celebre poesia di Mandel'stam). Così la sconveniente verità da proclamarsi con ogni mezzo, è che lei è la prima e legittima moglie del Duce e madre di suo figlio Benito Albino Mussolini - ecco il nome finalmente, l'esistenza negata attraverso la rimozione manicomiale. E non è molto importante sapere se ciò sia effettivo - non esistono prove storiche al riguardo - perché la virtù della parresia non consiste in una verificabile certezza, ma nella titolarità morale a dire il vero. Che coincide con il rifiuto della retorica pubblica del Potere, della discrasia tra nome e corpo.
Gli italiani che alla fine si ribellano al fascismo e ne distruggono le icone, sono in fondo tutti dei Benito Albino, dei figli edipici che rivendicano il riconoscimento del proprio nome e della propria autonomia (libidica?), a cui avevano precedentemente abdicato in un'ebbrezza infantile: coincidere con il Padre, scindere il corpo dentro un'immagine proiettiva. Ed è commovente assistere, cioè letteralmente soggiornare dentro un’ impalcatura allegorica vertiginosa, al regista forse più lucido del cinema italiano che assume il tema caldo dell'emozione come verità "politica", ma anche cinematografica. Infatti è proprio il cinema che si è occupato, in epoca recente, di reintegrare l'elemento emozionale scisso, come la stessa pellicola ci ricorda per mezzo di numerosi inserti cinematografici. Perciò io trovo che Vincere sia un film politico ma solo in senso lato; non c'entra insomma nulla con una critica traslata all'attualità politica, come è stato suggerito, e direi quasi brechtiano o situazionista. Mostrando la responsabilità civile interna a ogni altro film - portare lo spettacolo a una piena consapevolezza e responsabilità del ruolo di "integratore emotivo", potremmo dire - o più in generale ad ogni enunciazione preverbale ed iconica.
Ma qui il discorso dovrebbe essere ovviamente esteso a quell'altro formidabile apparato iconico che è la pubblicità, rivelando la fondatezza dell'intuizione di Pasolini, quando la rubricava come "nuovo fascismo". Se c'è dunque una critica politica di Bellocchio rivolta all'oggi, non è a Berlusconi ma al berlusconismo. Qui inteso come codice linguistico con ambizioni totalitarie che si appoggia alla rimozione neofascista della vitalità naturale, interna e costituiva del sistema pubblicitario di promozione delle merci. In altre parole, al trasferimento della vita nella sua rappresentazione. Che porta a dire ti amo in tedesco o papi a un signore di settantatre anni suonati.

venerdì 19 giugno 2009

Pynchon e Yoghi, monologo con Professore e ciliegie


Ieri sera, ad un aperitivo, con un amico che si è appena ritirato dal lavoro. Ha sessant'anni e un nome strano, il mio amico neopensionato. Per tutta la vita ha fatto il professore di lettere e storia in vari istituti superiori. Ora che lo guardo bene semisdraiato sul canapè di un lounge bar che così poco gli rassomiglia, mi sembra un vecchio gattone spelacchiato, randagio ma con una fedeltà alla consuetudine dei luoghi che lo fa rincasare tutte le notti dallo stesso foro della rete, magari con qualche graffio in più sul muso. Un professore, insomma. Gli chiedo dunque cosa pensa dell'uscita del nuovo romanzo di Thomas Pynchon, mentre sorbiamo con la cannuccia un aperitivo giallino con scorze verdi di lime e una sola ciliegia rossa. Mi fa ripetere un paio di volte il nome come chi gratti il barile della memoria. Quindi mi risponde che non l’ha mai sentito nominare, Thomas Pynchon, mai sentito. Ho provato allora con Don DeLillo; Gianni Celati; Manchette; Marco Lodoli; Philippe Forest; Thomas Bernhard; Marosia Castaldi; Raymond Carver; Dario Voltolini; William Vollmann; Eraldo Affinati; Murakami e Danilo Kis. Autori molto diversi tra loro, intendo. Anche cronologicamente e per importanza e diffusione. Uniti forse solamente dal filo rosso della mia passione di lettore. No, non ne conosceva nessuno.
Alcuni mesi fa parlavo invece con un'altra persona, un medico. Non c'era nessun aperitivo colorato tra noi, solo l'imbarazzo e il desiderio di riempire il silenzio con una manciata di parole. Gli ho così domandato del pensiero di Paracelso. Non lo conosco, o forse sì, Paracelso, magari … per sentito dire. Allora gli ho chiesto di spiegarmi come funziona uno sfigmomanometro ed è stato molto preciso nella risposta. Anche nel dettagliarmi le recenti tecniche di ricognizione del DNA, che credo sia la sua specializzazione. C'è una relazione tra le due conversazioni? Io penso di sì.
Io penso che il mio amico di sessant'anni da trenta abbia smesso di leggere un libro che non sia stato scritto trent'anni prima. Non lo fa perché è ignorante, posso assicurare. Nemmeno perché è stupido o pigro e si accontenta del suo strano nome. Io penso che lui non legga narrativa recente per il semplice fatto che è stato un professore, e un professore rimane anche e forse soprattutto adesso che è in pensione. Ma provo a spiegarlo meglio con la cura di non offenderlo, perché tengo molto a questo mio amico, ammaccato dalla vita e da altri gattacci randagi come lui. Un professore è infatti una persona che, per contratto, prende una cosa che c'è già e la sposta in un luogo dove non esiste ancora, la sua classe. A quel punto cerca di far esistere quella cosa anche dentro la testa dei suoi alunni: seducendoli, persuadendoli, intimandogli che quella cosa è una cosa buona di ficcarsela bene dentro la zucca. Perché si chiama cultura.
La cultura, provvisoriamente, mi viene allora da pensare che sia una cosa molto concreta, proprio come un sacco di cemento o se preferiamo di fagioli: che si sposta, che si trasporta con fatica ed impegno, e perciò non si crea da un momento all'altro come invece un piatto di lasagne al forno con la besciamella, per esempio. Qualcosa insomma che non contiene l’attualità mutevole dell’azione – come dire che manca del “dire, fare e baciare” della filastrocca, ha solo “lettera” e “testamento”. Attraverso la cultura accademica (cioè la sola ammessa nelle scuole) diventiamo dunque più strutturati dentro una forma riconoscibile e condivisa, ossia conformi a un canone civile come un testo con la punteggiatura al giusto posto, l’ortografia rivista e controllata. E' questa la cultura della lettera, che somiglia a un dovere sociale. Ma la cultura testamento ci rende anche partecipi di una sorta di diritto, o meglio di "disponibilità" come fosse il patrimonio di un nostro lontano antenato, che è morto vecchissimo e ha lasciato alla famiglia tutti i suoi averi consistenti. Perciò, in luogo della sua voce rauca, abbiamo un orologio da tasca, un copri tovaglia di pizzo o uno sfigmomanometro: se questi era un medico condotto e con foga spronava i cavalli del suo calesse, che fosse per una puerpera o un bracciante ruzzolato da una pianta di ciliegie.
E' un momento di crescita importante uscire dall'orticello dell'io voglio per essere resi partecipi di qualche cosa che ci precede, ma anche esorbita, e in cui noi possiamo riconoscerci come nel profilo di un naso, uguale uguale a quel nostro antenato che sembra osservarci minaccioso da dentro la cornice argentata della fotografia. Un'esperienza che effettivamente ci rende più consapevoli di quel che siamo o che potremmo diventare. Ma per questa sua caratteristica di pachidermica traversata tra le generazioni, la cultura non sempre riesce a guarirti da un improvviso mal di denti, che dall'inciampo di un momento si allaga a tutto quel che siamo. In quel caso – il dolore, la sofferenza vera, l’urgenza della vita – è come se si rinnovasse ogni volta una richiesta che la cultura non può soddisfare, con tutta la buona volontà dei bravi professori ma proprio non ce la fa. Si tratta infatti della richiesta di un rimedio, e non importa per cosa, per dove, per quando la vita ti sorprenderà senza nemmeno una aspirina in tasca. Infatti "tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo", come scrive Tolstoj nell'incipit di Anna Karenina. Così ogni uomo può e deve essere strappato all’incombere del male con un’astuzia che si incunea nell’adesso, dentro la specifica ed unica condizione di un corpo vissuto, la sua differenza, con l'unico conforto dei mezzi contingenti a portata di mano, tra cui c'è naturalmente anche la cultura. Per questo non ci scandalizza troppo sapere che un medico non si ricordi chi fosse Paracelso, mentre è vigile e pronto verso le novità del presente: si documenta, studia, fa corsi di aggiornamento senza troppi zaini sulle spalle. Ugualmente non sorprende che il professore - professore di lettere e testamenti - ora comodamente sdraiato su un canapè di vimini con una cannuccia in bocca e una ciliegina tra le dita, non abbia mai sentito nominare quello che è forse il più importante scrittore americano degli ultimi decenni, qual è certamente Thomas Pynchon. Presente e passato remoto, passato remoto e presente, ecco il circuito idraulico della sua cannuccia. Tutto quel che sta in mezzo viene semplicemente traversato dal risucchio. Eppure è nel futuro che l’uomo immagina di avere la sua propria destinazione. Il gesto della cultura professorale è viceversa un'immersione nell'antico, un torcicollo del pensiero. Perciò io credo che gli studenti, con qualche buona ragione, diffidino dei professori e della cultura, continuando a inventarsi il mondo e le parole dentro l'approssimazione di uno slang. Perché sono corpo e futuro, nuda vita, e recalcitrano dalle vecchie fotografie e dai pozzi troppo profondi. Ma sbagliano anche loro, sbagliano parole.
Trovare la parola esatta, dico al mio amico dopo il secondo aperitivo, la seconda ciliegia rossa, per come la vedo io corrisponde a circoscrivere la propria ferita, allo stesso modo in cui al pronto soccorso incorniciano la parte del corpo da suturare dentro un panno verde con nel mezzo un piccolo foro tondo. Le parole dei ragazzi tendono invece a una sorta di “genericità del male”, e per questa ragione, dopo un po’ di tempo, si incastrano nel loop dell'abitudine. Così la ferita riprende a dolere prima di un temporale o ancora peggio non la si sente più, insieme alla percezione del corpo palpitante e vivo sotto al lenzuolo. Ma secondo alcuni questa lieve anestesia significa diventare adulti. Ed è in tale momento che invece tornerebbe utile il deposito di parole che sta nello scrigno dalla cultura: uno sgabello formidabile su cui arrampicarsi per scavalcare le frasi slabbrate, le descrizioni imprecise e le opinioni pencolanti tra soggezione e arroganza. La cultura, insomma, è un atto di riconoscimento, per rimanere nella metafora clinica potremmo dire di diagnosi. Ciò che viene dopo la diagnosi e riguarda la sfida terapeutica, il duello decisivo con la malattia o con il significato unico e irriducibile della propria vita, sta dunque e necessariamente oltre la ricognizione culturale. Così io credo che i professori di lettere facciano perfino bene a non occuparsene, in quanto professori, almeno, perché questo oltre è un territorio aperto al vento dell'azzardo e dell'errore, ma soprattutto a un'attitudine che potremmo chiamare "soggettività generativa". Qualcosa che per definizione non può essere ricompresa in un sistema culturale, almeno fino a quando non avrà dimostrato, per sua intima forza e generale consenso, di avere caratteristiche di tenuta storica ed egemonia interpretativa e morale. Kafka, ad esempio, pensava che le persone presenti alle sue letture pubbliche dovessero scoppiare a ridere, come faceva lui stesso. Allo stesso modo Dizzy Gillespie si attendeva che la gente si mettesse a ballare sopra le note disarticolate del primo bepop. E' insomma una comunità civile a decidere cosa farsene del singolo gesto espressivo, che in quanto tale rimane un' oltranza, il tentativo sempre incerto di scavalcare la staffetta dei secoli e poi ancora oltre, verso cosa non sa. Forse la cima dello scaffale della farmacia, per acciuffare la pastiglia che è riposta al culmine, sempre all’ultima mensola quando la cerchiamo noi. Ma chi l’ha messa lì? E quale nome esotico e strano, o greco o latino, come uno scrittore che non abbiamo mai sentito nominare, dopo trentacinque anni che spostiamo e rispostiamo lo stesso identico sacco di cemento o fagioli?
Ritorna il cameriere dinoccolato che scivola tra i tavoli sopra le note morbide della musica lounge, le ragazze che si toccano i capelli mentre parlano e guardano lontano, in un vago altrove azzurrino, sorvolando i tavoli su cui sono posati i telefoni Nokia e i pacchetti di Marlboro, non più bianchi e rossi ma leggeri, light, alchemicamente trasformati nell'oro delle nuove superfici. Forse è cambiato solo questo negli anni: il colore della tappezzeria, l'effige della cicatrice. Tiro una sorsata dalla mia cannuccia e provo a riprendere il filo del discorso, che non so ancora in quale labirinto mi voglia precipitare. Io penso che la medicina sia il luogo dell’urgenza del presente e la cultura quello del respiro lungo del passato, del bocca a bocca tra le generazioni, ma anche della forma duttile su cui arrampicarsi per guardare più lontano, che per questo i vecchi professori giustamente sorvegliano con paludata bonomia. Però i professori e i medici arrestano la loro prospettiva alla dogana del presente. L’azzardo interpretativo che cerca di legare il presente a una fotografia seppiata del passato, come nel meraviglioso libro di Richard Powers “Tre contadini vanno a ballare”, ma contemporaneamente a un futuro diverso e non sempre migliore, artificialmente dedotto, quel doppio sguardo vagamente strabico non è disponibile al medico e nemmeno al professore di storia e letteratura, mentre invece lo è allo scrittore o più in generale all'artista. Perché un artista - soggettività generativa estrema e irriducibile a ogni sistema culturale - crede che con le parole si possa ancora dire fare e baciare. E riconsegna volentieri i testamenti ai notai, le belle lettere ai professori.
Leggere i nuovi scrittori, ma quelli bravi, quelli che non si fanno limitare dai recinti della tradizione o dal pronto soccorso della cronaca, equivale dunque a compiere un gesto di fede nei confronti del potere allegorico di una lingua, che dal passato prefigura mondi possibili, azioni e reazioni ancora tutte da compiere, anche quando travestite dentro incubi immaginifici che la volontà collettiva potrà accogliere oppure rigettare, come uno sciroppo troppo amaro. Non significa cioè guarire dal proprio male, ma la scommessa ancora più radicale di chi dice il male, in qualche modo lo fonda. Talvolta dice però anche il rimedio, lasciando all’uomo la libertà di perseguire l’uno o l’altro, per non sperdere nel vento il proprio al lupo al lupo. E viene il dubbio che ciò sia lo stesso di quanto suggeriva, in una celebre lettera al fratello, il poeta inglese John Keats: "Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a che serve il mondo".
Fare anima. Non fare lettera, fare testamento.
La principale differenza di uno scrittore rispetto a un professore, consisterebbe dunque nella fiducia nel ruolo di "farmaco", sempre ambivalente per definizione, racchiuso nella lingua. Perché se il mondo fa anima, anche l'anima e la sua principale estensione, la lingua, sono in grado di fare mondo. Un farmaco, sì. Un principio attivo che fa anima ma anche corpo, mondo, azione sociale e che funziona per reazione al sistema immunitario, mai per se stesso come l'insulina. Da ciò si intuisce quanto sia assurdo credere che le persone abbiano beneficio dagli stessi libri. Qualcuno starà meglio con una sorsata di Flaubert, altri assumeranno una postura più corretta e salubre con Tolstoj o Dostoevskij o perché no Topolino. Ma attenzione: non sto dicendo che il valore di Topolino equivalga a quello di Dostoevskij. Questo è ancora un problema da professori, che nei secoli troveranno un canone in cui ricomporre l'uno e l'altro, ciascuno al giusto livello dentro gli scaffali massicci di una biblioteca. Dico solo che quando ti trovi nel bel mezzo di una giornata che proprio non vuole girare, il rimedio, forse, potrebbe anche essere in una mezz'ora in spensierata compagnia di Topolino, lasciando perdere per un momento i delitti e i castighi che ti attendono come un abito griffato da sfoggiare. La giornata non riprenderà a girare bene, naturalmente. Ma magari con la consapevolezza, nata da quell'altra fondamentale funzione della lingua che è il rispecchiamento, provvisorio alienamento che produce identificazione, che nemmeno per Paperino erano sempre rose e fiori. Così che a cercar bene, ma proprio bene dentro un armadio, non è detto che sbuchino fuori delle scarpette a molla con cui saltare sopra la selva dei cretini e dei bari, degli infiniti diavoli al culo.
Per provare a riassumere, io penso che professore, medico e scrittore, al loro meglio rappresentino tre figure civili fondanti ogni comunità umana basata sul riconoscimento, ma profondamente diverse seppure intimamente collegate. Il primo è una sorta di guardiano della soglia e della forma, che si occupa del valore testimoniale di una lingua, mantenendo vivo il sacro fuoco della tradizione, l'esattezza e l'efficienza delle sue parole. La magistralità consiste anche in questo: nella ripetizione estenuata dello stesso identico gesto, come il samurai con la katana. Perché è dalle ceneri dell'uguale che sorge a volte l'eccezione. Il medico coincide invece con il principio della responsabilità, accogliendo nel presente ogni possibile richiesta di aiuto, a cui cerca di rispondere con gli strumenti più vari che lo stesso presente gli offre. Se il professore aveva nella continuità il proprio orizzonte, il medico riconoscerà allora nella trasformazione ("l'emendamento delle cose guaste", dice una sentenza del Libro cinese dei mutamenti) l'intima essenza del suo ruolo. Perfetta è dunque la scelta rappresentativa della serie televisiva Lost, che vede nel medico, Jack, una sorta di sacerdote laico. Infine lo scrittore, che è un po' dell'uno e un po' dell'altro. Vuole la salute ma proclama la malattia, guarda avanti mentre fruga negli armadi, batte il tempo della marcia ma ogni tanto perde un colpo, o l'aggiunge, trasformando il ritmo e la melodia di quel che fino a un minuto prima appariva come l'inno nazionale. In ciò simile ad Achab col suo arpione: convinto che sotto la superficie mobile e dorata delle cose ci sia sempre qualche cosa da cavare fuori, un bisturi dimenticato nella pancia, un termine inaudito come il mostro di Loch Ness, che solo lui potrà finalmente infilzare. Così per inseguire la Parola sommersa non risparmia anche i trucchi più bassi, scassinando i lucchetti che i professori mettono dentro ai dizionari, pur essendo idiosincratico a ogni slang. Perché sono anche quelle generalizzazioni, come questa, che è un altro trucco, un'altra menzogna per fare abboccare la Parola. Ma cos'è la Parola? E' lettera, è testamento? Allora non gli interessa più, già che quando lo tiri fuori dall'acqua, qualsiasi pesce, dopo tre giorni comincia a puzzare. Si affida dunque alla rete dell'allegoria e dell'evocazione, che invece di circoscrivere ciò che esiste (il mondo) solo ne implica l'esistenza (l'anima), contribuendo così a realizzarla nel futuro. Potremmo dire che lo scrittore agisce il futuro dentro un presente colmo di memoria e stupore. A quel punto, si potrà poi decidere se andare dal medico oppure leggersi l’ultimo libro di Thomas Pynchon.
Pynchon con la ypsilon di Yogi l’orsetto?, mi chiede ora il mio amico. Che nel frattempo si è preso una matita e vedo che sta scarabocchiando qualcosa su un tovagliolo di carta, lo stesso in cui aveva avvolto le sue tre ciliegine di glassa.

Cari compagni di cella - dopo una settimana su Facebook



Cari amici compagni di cella, fratelli miei, nei pochi giorni che sto qua, divorando lamette e scagliando arance rosse tra le sbarre, attento solo a riprendermi la mano come quando da bambino imboccavo le marmotte a Saint Moritz, o in qualche altro posto da ricchi in cui mi portava il mio papà con la Prinz color paglia, ho imparato a fiutarvi a sentire l'odore da quando sto qua, quei pochi giorni, cari amici miei. E’ bastato grattare alla porta e mi ha avete fatto entrare con un sorriso grande e silenzioso. Ho detto buongiorno e avete taciuto, ancora. Solo mi avete fatto un cenno con la mano, e sono stato io a fingere di non vedervi, i miei amici, i miei fratelli. Bravo, hai capito, avete pensato come chi sa tenere un segreto. E io ho scoperto di essere bravo davvero come voi che siete bravi, a vostro agio, e invece di parlare di rispondere dare del tu, ho cominciato anche io a proclamare, a sentenziare e a profumare, almanaccando dentro il più rotondo tra i pronomi; o in alternativa dicevo noi, che poi è lo stesso che dire io. E più lo faccio, più dico io oppure scrivo noi, muovendomi obliquo contro le pareti della cella, più provo questa sensazione di eccitante disgusto, l'odore della carne degli uomini che si rincuccia sotto al lenzuolo dei deodoranti. Quindi vi osservo vi spio, fratelli miei. E vi vedo mentre battete la polvere dai tappeti – no, non voi: siamo noi che battiamo i tappeti - e quella vergogna che non provate è il mio diletto, la mia taciturna conquista e il mio segreto. Sono avido di vergogna, sì, di polvere. Una volta ho visto un film dove qualcuno faceva funzionare un aspirapolvere al contrario e mi faceva ridere da matti: sbuffava polvere e sporcizia in ogni angolo di mondo, un infinito starnuto. Ma forse ridevo perché ero molto piccolo e pensavo che lo sporco, come il cibo, deve finire dentro una pancia. Mentre lo sporco che esce dalla pancia si chiama vomito. Così adesso che sono vecchio come voi che siete vecchi, ma belli, mi sembrate tutti più belli di me che alle scuole medie e anche a quelle dopo, stava scritto su un foglietto a quadretti piccoli piccoli trovato sotto ai banchi delle compagne, giuro, ci stava scritto a maggioranza ed ero io quello più bello, di tutta la classe intera – non “carino”, attenzione: bello! La parola carino non si usava ancora e nemmeno la sua iperbole carinissimo, il sapone al posto dei deodoranti. Ecco, adesso in fondo era solo questa cosa qui, nemmeno più un segreto, ma temo di aver scordato il finale, la musica sui titoli di coda. Continuerò allora a fischiare alle marmotte e a parlare nel sonno ad alta voce, o ad alzare la voce per non prendere sonno, vinto dal gusto della bella frase, il gioco arguto e vanitoso di parole, infine il tepore della branda. Ma poi di nuovo a lanciare arance, scrivere sui muri, quanto sono grandi e spessi questi muri, avete notato, le mattonelle bianche per lo smisurato borbottio. Così grandi e pulite che si può scrivere anche due volte le stesse cose, come i matti veri, gli scemi di guerra, la parola arancia arancione vomito Prinz papà. Ogni tanto, ma raramente, capita anche di leggere qualcosa che hanno scritto gli altri; qualsiasi cosa, non è importante: basta che non sia stata scritta per te, diventeresti un Tu, con il tuo proprio odore. Come un inciampo, sì. Ma oggi quasi mi facevo male, quando sono inciampato in quelle parole che non bisognerebbe lasciarle in giro, qui, delle parole così:

"L'umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall'altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un'esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un'esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico – e non semplicemente cognitivo – che unisce le parole, le cose e le azioni si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall'altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa."

Giorgio Agamben (da Archeologia del giuramento, Laterza, 2008)

lunedì 15 giugno 2009

Colombo e Vespucci, una proposta



intervento ospitato nel sito www.psicologia-energetica.it, consultabile a questo link

Destra e Sinistra, divagazioni toponomastiche


Camminando, con un’amica, caschiamo nelle sabbie mobili. Destra e sinistra, discorso stracotto e vischioso. Lei dice che non ci capisce più nulla e che i “simpatici le stanno antipatici”, come nella canzone. E nel dirlo i suoi occhi si fanno grandi e scuri. Io rispondo che ho compreso una sola cosa – ma non è vero – e la cosa che ho compreso è che voto a sinistra ma “sono” forse di destra. Provo anche a motivarlo, dal fondo delle sabbie mobili.
A sinistra si esprime ora una fiducia relativa (sempre revocabile, dubbiosa e piena di distinguo) per un’idea percepita come invece assoluta, quindi incontestabile pena i sorrisini di sarcasmo. Insomma, una verità. Eppure è una verità paradossale, perché coincide con la relatività di tutti i valori e di tutte le verità, con la democrazia delle idee, e ha dunque nella tolleranza e nel rispetto delle differenze il suo naturale corollario. Ma tale rispetto può essere solo nominale, per l’ovvia ragione che se la relatività dei valori è l’Assoluto, qualsiasi altro valore che abbia pretesa di assolutezza è fuori gioco e viene pregiudizialmente negato – da qui i sorrisini. Arriviamo così alla sinistra postmoderna, la sinistra degli aperitivi e dei portaocchiali a cordicella, che vive con disinvolta scioltezza dentro a tale paradosso. In altre parole, proclama la sua negazione. Oppure nega la sua proclamazione.
Diversamente la destra vive in modo assoluto (appassionato, eroico e anche un filo teatrale) l’adesione ad una verità relativa, dove la visione del mondo si traduce in una sorta di sineddoche: la parte, la propria parte, in luogo del tutto. Al netto di skinheads, saltatori nel cerchio di fuoco e cretini vari, la destra più consapevole ha perciò una visione tragica dell’esistenza, che potrebbe essere riassunta nelle parole di Eraclito: “Di tutte le cose Polemos è padre”.
Tale convinzione non porta però a negare la parte antagonista, come viene fatto dalla sinistra dei sorrisi. Al contrario: l’avversario è un “assoluto relativo” allo stesso modo in cui lo siamo noi. E’ allora nella contesa vitale con l’avversario che si riesce ad uscire dal paradosso. Perché l’assolutezza con cui la destra culturale vive il suo essere di parte, non coincide, in effetti, con la natura stessa e relativa della parte. Piuttosto con la contesa medesima, con Polemos. Il dissidio originario tra le parti finisce così col rivelarsi come l’implicito elemento di unificazione. Junger osserva il militare inglese che fuma l’ultima sigaretta, mentre con l’altra mano si contiene le budella fuoriuscite dall’addome, e in quell’immagine si rispecchia. La lealtà verso la propria parte esprime dunque una lealtà più profonda ad un paradosso di natura esistenziale, non logica o politica. Un mistero che Totò, nella sequenza finale di un cortometraggio di Pasolini, sussurrava a questo modo: “Ah, meravigliosa e struggente bellezza del creato …”
Ecco, io la penso così, dico alla mia amica. Per questa ragione penso pure che la nostra destra politica, così spensieratamente priva di fondamenti quanto di tensione “particolare” – e il particolare non coincide mai con l’individuale, questo è chiaro - sia una contrazione individualistica della filosofia postmoderna, quindi in un certo senso “di sinistra”. Che il vero fondamentalismo sia sempre e solo di centro. Mentre il marxismo coincida con l’ultimo grande slancio della mistica marziale, centrato com’è sulla contrapposizione polemica ossia su una dialettica solo presunta, mentre al fondo soggiace a un’estetica dell’aporia, ad una vertigine del bellum. “Intendi dire che il marxismo è di destra?”, mi interrompe la mia amica. Io la guardo e mi sembra che i suoi occhi siano ancora più grandi e scuri.

(ps - intervento pubblicato anche qui)